Ha ventiquattro anni, Andrew Garfield, la prima volta che lo vediamo sul grande schermo. Deve spartire la scena con un mostro sacro, un duello intellettuale – letteralmente: l’uno di fronte all’altro in uno spazio chiuso e basta – che, più dell’impossibile passaggio del testimone, evoca qualcosa di simile alla masterclass. La lezione trascende la storia e si riverbera nella trasmissione di un mestiere.

Il film è Leoni per agnelli: su un livello ci sono i personaggi, Garfield come studente e Robert Redford nel ruolo del suo professore; su un altro ci sono un giovane britannico che si è fatto le ossa con qualche serie (una manciata di episodi tra Sugar Rush, Simon Schama’s Power of Art, Trial & Retribution e Doctor Who) e un divo settantenne che il reduce carismatico di una stagione gloriosa, l’incarnazione di una certa idea di concepire il cinema; su un altro ancora ci sono l’interprete e il suo regista, che accidentalmente è anche il suo unico partner in scena.

In Leoni per agnelli (2007), j’accuse alla politica guerrafondaia dell’America di Bush, Garfield deve sfidare se stesso: nel ruolo di un ragazzo tanto brillante quanto annoiato, di buona famiglia e comunque bisognoso di mentori all’altezza delle sue aspettative, viene costantemente messo alla prova da colui che è contemporaneamente il mentore del suo personaggio, il suo collega e il regista che non sta dietro la macchina da presa. E così, in un set che è sia un campo da tennis (il rimbalzo delle battute), una zona di guerra e un’aula universitaria, si ritrova a esplorare uno straordinario spettro emotivo, passando dal fastidio alla delusione attraversando lo scherno e l’inabissamento.

Andrew Garfield
Andrew Garfield

Andrew Garfield

(Karen Di Paola)

Un atteggiamento che mette in luce quella che diventerà una delle caratteristiche principali di questo attore spericolato e imprevedibile nel suo essere sempre quietamente sottostimato: la capacità di ondeggiare tra la sicurezza e lo spaesamento dando l’impressione di navigare a vista nelle tempeste emotive.

Lo dimostra, d’altronde, l’altro personaggio interpretato in quello stesso 2007: Boy A, storia straziante di un venticinquenne che, dopo aver scontato quindici anni di prigionia per l’assassino di un bambino, assume una nuova identità nella speranza di rifarsi una vita. Il coraggio non gli manca, la tensione è palpabile, il melodramma diventa la sua seconda pelle: non è un caso che alla regia ci sia John Crowley, che, diciassette anni dopo, l’ha richiamato come protagonista del suo film più esaltante e struggente, We Live in Time – Tutto il tempo che abbiamo, dal 6 febbraio nelle sale italiane.

Dove Garfield, in magnifico duetto con Florence Pugh, è addirittura meraviglioso nell’incarnare l’impaccio di un sad boy (quel tipo umano generalmente malinconico e apparentemente svagato che non si vergogna di abitare la tristezza per un amore non corrisposto e, in generale, non nasconde le proprie emozioni) e allo stesso tempo la malizia di un seduttore imprevisto (un po’ come appare sui red carpet, ironico ma ammiccante a caccia di thirst trap cioè i contenuti social che intendono suscitare l’attrazione sessuale degli utenti), ennesima dimostrazione di come sappia muoversi all’interno del discorso amoroso con sfuggente leggerezza.

Elegante e sornione, Garfield non rinuncia mai a coltivare l’ambiguità che alberga oltre la maschera ghignante: pensiamo ai tre episodi della serie Red Riding, in cui è un giovane reporter impulsivo e ingenuo, testardo e arrogante, minaccioso e minacciato al contempo, o magari quando danza sopra le righe, che sia il luciferino apostolo del narcisismo di Nessuno di speciale, l’istrionico marito supercamp di Tammy Faye e soprattutto il disadattato spione di quel grande film maledetto che è Under the Silver Lake.

Sarà per questo saltellare tra tenerezza e antipatia che la sua variante di Spider-Mandue film, i The Amazing, più revival nostalgico con l’immagine iconica dei Peter Parker – non ha infiammato la fanbase (ma quella chimica con Emma Stone, dentro e fuori dal set, è interessante a prescindere). O forse, per la percezione che in quegli anni gli interessasse altro, cercare – e trovare – un posizionamento più forte in un cinema alto, che fosse nell’indie con il dramma immobiliare di 99 Homes o in produzioni più ricche nelle quali curiosamente si trasfigura nel martirio cristologico, da La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson (prima nomination all’Oscar) al meditativo Silence di Martin Scorsese fino a un trampolino per i premi come il ruolo da protagonista di Ogni tuo respiro, in cui si immobilizza per dare vita a Robin Cavendish, attivista britannico minato dalla poliomielite.

© 2021 Netflix, Inc.
© 2021 Netflix, Inc.
tick, tick...BOOM! ANDREW GARFIELD as JONATHAN LARSON in tick, tick...BOOM!. Cr. COURTESY OF NETFLIX (COURTESY OF NETFLIX)

La seconda nomination, però, arriva con un altro biopic, tick… tick… Boom!, magnifico musical riflessivo che nella vita di Jonathan Larson scopre l’autoritratto del suo regista (Lin-Manuel Miranda) attraverso una performance generosa ed empatica, capace di trasmettere ossessione e passione, paura e desiderio, frenesia e melodramma.

Il mélo, appunto, di cui Garfield sempre conoscere appieno il lessico e i gesti, le smorfie e i tormenti, testimoniandolo non solo laddove il genere si esprime nitidamente (il devastante Non lasciarmi, il corto sci-fi I’m Here) ma anche quando sa sublimarsi nell’epopea (Angels in America nell’allestimento del 2011 e nel revival del 2018: il ruolo di Prior, trentenne gay malato di AIDS, gli valse un Tony), divagare nel thriller (la serie In nome del cielo e chissà se l’imminente After the Hunt di Luca Guadagnino confermerà questo registro), accogliere la commedia (We Live in Time).

E, dopotutto, non ci ha colpito al cuore in The Social Network, il capolavoro di David Fincher sulla genesi di Facebook, quando scopre il tradimento del migliore amico? Ovunque vada, che voglia o no, Garfield porta in dote la quintessenza del melodramma: tutto finisce nonostante noi.