PHOTO
Flow
Cosa accomuna un gatto, un cane, un capibara, un lemure e una gru? Animali di diversa provenienza geografica, alcuni molto comuni e domestici, altri selvatici e inafferrabili. Se poi vi aggiungiamo una gigantesca megattera, allora il mistero che lega questi animali tanto diversi fra loro si infittisce ancora di più. Ed è un’aura di mistero che avvolge il film d’animazione Flow – Un mondo da salvare (nelle sale dal 7 novembre con Teodora Film), presentato nella sezione Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, opera seconda del lettone Gints Zilbalodis, che aveva già sorpreso con Away (2019), da lui diretto a soli venticinque anni. Il film è stato scelto dalla Lettonia come rappresentante nella corsa all’Oscar come “miglior film internazionale” e, se entrasse in cinquina, sarebbe il primo a farcela per la repubblica baltica, e solo il terzo film d’animazione dopo l’israeliano Valzer con Bashir (2008) e il danese Flee (2021).
Come nel suo primo lungometraggio animato, anche qui Zilbalodis dirige, scrive, produce, musica (in tandem con Rihards Zaļupe) e cura fotografia, montaggio, scenografia dell’intero film animato in digitale, quasi rivendicando la limitatezza dei mezzi a disposizione, senza cercare una purezza estetica e richiamandosi a una sorta di fotorealismo.
L’animazione, infatti, è una computer grafica sfacciatamente imperfetta, sebbene il contesto, la velocità, la complessità cromatica delle inquadrature, i piani sequenza e una sceneggiatura semplice quanto avvincente contribuiscono a far trascolare la qualità oggettiva dell’elemento grafico. In un mondo che porta le tracce degli uomini ma dove questi sono assolutamente assenti, forse scomparsi in un precedente disastro, una improvvisa inondazione sconvolge la terra, portando le sue creature animali a cercare di sopravvivere come possono.
Protagonista è un gatto nero che si ritrova in balia totale degli eventi, il quale instaura, non senza fatica, relazioni con gli animali sopracitati che da puramente funzionali si trasformano via via in qualcosa di più forte e profondo. Ripercorrendo passo passo la pellicola, nella quale gli animali non sono antropomorfizzati né tantomeno parlano (non c’è un singolo dialogo in tutto il film, sostenuto unicamente dalla colonna sonora), sin dall’inizio il percorso dello spettatore è segnato dal gatto nero, colore che subito evoca la diversità e l’ostracismo causato dalla superstizione popolare.
Il gatto sembra appartenere a una realtà dove la sua specie – o forse solo lui stesso – è venerata e idolatrata, e ben presto si ritrova sommerso, letteralmente, in un mondo totalmente altro, dove i suoi riferimenti affondano insieme alle sue certezze. Come sopravvivere? La paura del nuovo irrompe come un violento tsunami e lo conduce ad affrontare pregiudizi e preconcetti. Chi meglio del cane poteva rappresentare l’altro come nemico per eccellenza? Ben presto lo storico e normale “equilibrio” fra canidi e felini si rompe generando un’insolita alleanza in cui a far da collante è un pacioso capibara, il più grande roditore al mondo originario del Sud America.
L’insolita compagnia attraversa il mondo sommerso su una nave che porta i segni del tempo, e su di essa ai tre si aggiungono un lemure, primate del Madagascar, affamato di ricchezze e tesori umani, segno di chi di fronte al disfacimento reagisce trovando come soluzione quella di accumulare il più possibile, e una gru, uccello che nidifica nell’Asia settentrionale, dal portamento principesco.
Cane, lemure e gru si trovano, in modalità differenti, ad affrontare direttamente i propri simili, che non vedono di buon occhio il farsi prossimi a chi simile a loro non è. Su tutte emerge la drammatica lotta fra la gru e il suo capobranco, una lotta per la supremazia dove viene escluso e azzoppato chi si distingue dalla massa. E così assume una composizione fissa questo improvvisato gruppo di cinque “esiliati”, con qualche assonanza alla fiabesca banda de I musicanti di Brema, i quali percorrono le acque e i segni di una civiltà ormai perduta su di una novella “arca di Noè” dove non c’è nemmeno una coppia di simili come nel racconto biblico, ma dei diversi che scoprono sempre più di assomigliarsi fra loro.
Nel loro piccolo gli animali rappresentano il tutto del pianeta, coprendo tutti e cinque i continenti: oltre ai già citati capibara sud-americano, lemure africano e gru asiatica, considerando l’Oceania e il Nord America ex-colonie europee ecco spiegato lo scozzese Golden retriever, mentre il gatto assume una valenza più universale, essendo importante anche in diverse culture africane ed asiatiche.
La ricerca dell’equilibrio è una costante di tutta la pellicola. Dentro a un mondo che questo equilibrio sembra averlo smarrito, i cinque animali cercano la chiave per raggiungerlo. Non è sempre facile né tantomeno immediato e basta poco per essere sconvolto, eppure è possibile arrivarci e custodirlo. E sarà tale equilibrio a salvare le loro esistenze.
Lontano dal genere dei disaster movie e privo di evidenti finalità apocalittiche ed escatologiche, Flow sembra più rileggere i racconti mitici tradizionali legati al topos del diluvio universale, presente in molte culture e religioni dell’antico Vicino Oriente e non solo nella narrazione biblica dei capitoli 6-8 del libro della Genesi: c’è l’inondazione improvvisa, c’è il viaggio per la sopravvivenza “da meritare” che i protagonisti compiono, c’è l’emersione di una nuova terra da abitare con un equilibrio rinnovato chiamato a non ripetere più gli errori del passato. Una lezione preziosa per il mondo che noi oggi, per ora, abitiamo.