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Cynthia Erivo in Wicked (Giles Keyte/Universal Pictures © Universal Studios); Ralph Fiennes in Conclave (Focus Features / courtesy Everett Collection); Mikey Madison in Anora (Universal Pictures)
Manca meno di un mese all’annuncio delle nomination agli Oscar, giunti quest’anno alla 97esima edizione. E lo stato delle cose, in vista del 17 gennaio (la cerimonia di premiazione si terrà il 2 marzo), è ambivalente: se il parterre dei candidati plausibili si fa sempre più chiaro, è l’esito finale a risultare – a oggi – meno prevedibile.
Come sempre, l’awards season si annuncia a fine primavera con il palmarès di Cannes e a inizio settembre con quelli della Mostra di Venezia e del Toronto Film Festival, ma parte davvero nella seconda metà di novembre con appuntamenti ormai tradizionali come le liste del National Board of Review e le candidature dei principali circuiti indipendenti ovvero Gotham e Spirit. E prosegue con i riconoscimenti assegnati dalle tantissime associazioni dei critici sparse nei vari stati americani. Al momento queste realtà si stanno concentrando su una manciata di titoli.
Anora, vincitore della Palma d’Oro, sta raccogliendo il maggior numero di menzioni quale miglior film dell’anno: l’hanno incoronato i circoli dei critici di Boston, Iowa, Los Angeles, Michigan, San Francisco Bay Area, San Francisco e Southeastern, ha vinto il British Independent Film Awards come miglior film internazionale ed è stato citato nella top ten dell’American Film Institute (AFI). È evidente che troveremo la commedia di Sean Baker, acclamata della critica e apprezzata dal pubblico, tra i frontrunner dell’Academy ma non è scontato che possa davvero arrivare alla vittoria finale. Lo distribuisce Neon, che è stata protagonista delle ultime edizioni grazie agli outsider Parasite, Flee, Triangle of Sadness, Anatomia di una caduta.
Sulla carta è più forte The Brutalist, già incoronato dai critici di Boston (online), Chicago, New York, Phoenix (due circoli: il mondo della critica americana è complicato). L’epopea sull’architetto ebreo emigrato negli Stati Uniti non solo rappresenta la consacrazione del giovane Brady Corbet, ma ha anche tutte quelle caratteristiche che di solito intercettano il favore degli elettori (regia sontuosa, durata estesa, vicenda umana coinvolgente, confezione ineccepibile, interpretazioni di livello). In più c’è l’ormai conquistata autorevolezza di A24, lo studio indie che nel 2023 ha sbaragliato con Everything Everywhere All at Once.
I “dark horse”
Il ruolo del cosiddetto “dark horse”, cioè quel candidato fuori dai pronostici che supera i favoriti, sembra appaltato a due titoli. Uno è The Substance, body horror sulla società dello spettacolo con cui la francese Coralie Fargeat ha impartito una lezione alla Universal. Dopo aver chiesto invano alla regista di modificare sceneggiatura e montaggio, lo Studio si è tirato indietro poco prima della proiezione a Cannes ritenendolo disgustoso e sbagliato. L’ha venduto a MUBI e da lì è storia: un successo da oltre 60 milioni di dollari (con un budget inferiore ai 20), una presenza massiccia sui social, la rigenerazione di Demi Moore e una bella chance per la piattaforma più radical.
L’altro è Nickel Boys, clamoroso esordio di RaMell Ross dal romanzo di Colson Whitehead (Premio Pulitzer per la narrativa), segnalato nella top ten dell’AFI e vincitore dell’African American Film Critics Association. Grande occasione per Amazon MGM Studios, è anche il contendente più forte tra quelli di area afroamericana: si sta muovendo meglio di Sing Sing (A24), dramma carcerario di Greg Kwedar che però si sta imponendo sul fronte degli attori (Colman Domingo e Clarence Maclin); e soprattutto di The Piano Lesson, che il debuttante Malcolm Washington (figlio di Denzel) ha tratto dalla pièce di August Wilson: Netflix lo ha un po’ abbandonato, preferendo puntare sulla prova di Danielle Deadwyler e su un altro film che ha “adottato” in extremis.
La scommessa di Netflix
Nonostante i molti tentativi e le occasioni sprecate, Netflix aspetta ancora di vincere un Oscar per il miglior film. Persa la possibilità di diventare il primo streamer a trionfare (Apple Tv+ ci è riuscita con l’ormai dimenticato CODA) e mancati gli appuntamenti con le produzioni “interne” (da Mank a Maestro la lista è lunga), ha ora deciso di scommettere su un film acquistato dopo la presentazione a Cannes, dove ha vinto due premi. Si tratta di Emilia Pérez, mélo tra narcos e transizione di genere diretto dal settantaduenne Jacques Audiard (un altro francese in gara), diventato ormai uno dei protagonisti della stagione: cinque European Film Awards, sei menzioni nelle shortlist degli Oscar (quindi già in predicato di sei possibili nomination), la statuetta per il miglior film internazionale quasi in cassaforte, la possibilità di rompere il tetto di cristallo grazie alla prima nomination attoriale a una persona trans (Karla Sofía Gascón).
Cardinali e streghe
Nell’orbita dei favoriti non può mancare Conclave (Focus Features), supremo romanzo vaticano che segna il ritorno del tedesco Edward Berger dopo i quattro Oscar conquistati con Niente di nuovo sul fronte occidentale (che, per inciso, è uno dei massimi successi di Netflix nella gara). Può mettere d’accordo gli elettori più anziani, notoriamente molto forti e silenti (lo sapeva bene Harvey Weinstein, ex dominus degli Oscar): l’irresistibile meccanismo narrativo, la confezione impeccabile, le ottime performance di un terzetto d’interpreti in attesa di premi da una vita (Ralph Fiennes, Stanley Tucci, Isabella Rossellini).
E come non citare Wicked (Universal Pictures), sorprendente trasposizione di uno dei più amati musical di Broadway ispirato a uno dei capisaldi della cultura popolare americana (Il mago di Oz)? Sono più di vent’anni che l’Academy non incorona un esemplare del genere (Chicago nel 2003, il precedente risaliva addirittura al 1969, Oliver!) e il film di Jon M. Chu sembra avere tutte le carte in regola per piacere a una platea elettorale trasversale: successo da oltre mezzo miliardo al botteghino mondiale, capacità di inserirsi nel discorso pubblico (la presenza sui social è straordinaria), plauso della critica, performance eccellenti. Certo, l’annunciata seconda parte prevista per novembre 2025 potrebbe posticipare il trionfo al prossimo anno, ma al momento è la cosa più simile a un fenomeno come Barbie.
Le indicazioni dei Golden Globe
Emilia Pérez, Wicked, Anora e The Substance sono anche in corsa per il Golden Globe al miglior film commedia o musical (un premio che, tuttavia, ha un credito maggiore di quel che è effettivamente), a testimoniare che la partita è piuttosto frizzante. Tra i nominati della comunque vetusta categoria prevista dalla Golden Globe Foundation, l’organizzazione nata dalle ceneri della contestata e controversa Hollywood Foreign Press Association, ci sono anche Challengers di Luca Guadagnino, che sembra un po’ debole sul fronte Academy nonostante la buona prestazione commerciale e l’impatto sui social, e il dramedy indie A Real Pain di Jesse Eisenberg, che potrebbe sorprendere grazie al traino del tema (un viaggio nell’identità ebraica, molto forte nella platea elettorale) e delle interpretazioni (lo stesso Eisenberg e Kieran Culkin).
Nella categoria dei film drammatici, invece, oltre ai citati The Brutalist, Conclave e Nickel Boys, troviamo altri tre titoli molto diversi tra loro. A Complete Unknown di James Mangold, biopic di Bob Dylan con cui Timothée Chalamet punta alla statuetta, è il cavallo su cui punta Searchlight Pictures, studio spesso sfortunato agli Oscar. Dune – Parte due di Denis Villeneuve cerca il bis dopo la prima parte ed è il titolo forte di Warner Bros. September 5, invece, potrebbe essere un dark horse: l’Academy è molto affezionata ai period sui media (qui c’è il racconto della diretta televisiva del Massacro di Monaco di Baviera alle Olimpiadi del 1972) e non sarebbe una sorpresa vedere in finale questa coproduzione tedesco-americana firmata dallo svedese Tim Fehlbaum e distribuita da Paramount Pictures.
Sorprese?
Il vero titolo su cui punta o puntava Paramount è Il gladiatore 2 che, forte dell’Oscar vinto dal predecessore nell’ormai lontano 2001, potrebbe convincere l’Academy: non è solo il ritorno a un’idea di “grande cinema per adulti” un po’ in sofferenza negli ultimi tempi, ma anche l’ennesima prova di forza dell’ottantasettenne Ridley Scott che, giova a ricordarlo, non ha mai vinto una statuetta da regista.
Partito a razzo, La stanza accanto di Pedro Almodóvar, vincitore del Leone d’Oro, si è infiacchito con il tempo e pare fuori dai giochi: lo distribuisce Sony Pictures Classics, che sembra più attiva sul fronte dei film internazionali grazie a Io sono ancora qui, il commovente dramma sui desaparecidos che segna il ritorno di Walter Salles. La statuetta è appaltata a Audiard, ma l’obiettivo della campagna pare coinvolgere anche le categorie di regia e attrice (Fernanda Torres).
Attenzione a All We Imagine as Light – Amore a Mumbai, su cui Janus Films/Sideshow sta costruendo una narrazione analoga a quella di Anatomia di una caduta: Gran Premio della Giuria a Cannes, dato per scontato come candidato indiano per l’Oscar al film internazionale e snobbato contro ogni pronostico (il designato Laapataa Ladies è rimasto fuori dalla shortlist), sta ottenendo non pochi riconoscimenti strategici (Gotham, National Board, Chicago Film Festival, i critici di Los Angeles, Toronto, Chicago, New York) e, soprattutto, la nomination al Golden Globe per la regia. E, insieme a Fargeat, Payal Kapadiya è improvvisamente diventata la “quota rosa” più forte dell’annata.
Chiudiamo con la regia: per un posto nella cinquina della regia, i favoriti sono Audiard, Baker, Berger, Corbet, Chu, Ross (sarebbe per tutti una prima volta) e Villeneuve (che fu ignorato per Dune, il che è indicativo). Da non sottovalutare il dissidente iraniano Mohammad Rasoulof, nella shortlist del film internazionale grazie alla designazione tedesca de Il seme del fico sacro, mentre è piuttosto nutrito il parterre delle suggestioni, da Mike Leigh (Hard Truths) al novantaquatrenne Clint Eastwood con l’imprevisto successo Giurato Numero 2.