Dopo mesi di prigione, di cui 40 giorni di isolamento, la fuga in Germania e l’approdo premiato a Cannes 2024, il regista iraniano Mohammad Rasoulof accompagna in Italia Il seme del fico sacro, che candidato agli Oscar dalla Germania – domani sapremo se entrerà nella cinquina del film internazionale - arriverà il 20 febbraio nelle nostre sale.

Impastato di realtà e biografia, cronaca e verità, il film lungo quasi tre ore parte s’avvia con la promozione di Iman (Misagh Zare) a giudice istruttore della Guarda Rivoluzionaria: l’incarico coincide con la morte di Mahsa Jina Amini a Teheran, e le manifestazioni di piazza e la repressione del regime, avallata dalle sentenze dell’uomo stesso, turbano la pace familiare.

Le figlie Rezvan e Sana seguono elettrizzate e preoccupate la rivolta denominata Jina (Donna, Vita, Libertà), la moglie Najmeh (Soheila Golestani) prova a mediare, ma le cose peggiorano allorché la pistola di Iman custodita nel comodino non si trova più: l’uomo diventa paranoico, e mette sotto indagine i familiari, fino a deportarli nella sua città natale.

“Negli ultimi 46 anni, dalla Rivoluzione Islamica, l’Iran è stato pieno di eventi difficili e non raccontati: durante i primi decenni sono state giustiziate migliaia persone, senza che al riguardo si riuscisse a fare un film”, osserva Rasoulof, che venendo all’oggi si professa ottimista: “Il mondo è interconnesso, grazie ai social artisti in esilio comunicano, ho speranza rispetto alla possibilità di raccontare storie che abbiano parimenti un legame con la gente comune in Iran e il pubblico globale”.

Se cinque anni fa, non potendo lasciare il paese, “non avendo il passaporto, non potendo filmare per strada, avevo pensato a un film sugli archivi con l’impiego dell’animazione”, oggi il cineasta persiano ha “tre sceneggiature pronte, devo capire da quale iniziare”.

Per quanto riguarda gli attori de Il seme del fico sacro, “hanno lasciato il paese clandestinamente e non; cast e crew sono sottoposti a un processo giudiziario, accusati di propaganda contro il regime, attentato alla sicurezza pubblica e diffusione della prostituzione sulla terra”, rivela Rasoulof.

Per due volte recluso a Evin, lo stesso penitenziario in cui è stata detenuta la giornalista italiana”, il regista dice “grazie a Cecilia Sala per aver preso il rischio di andare in Iran a vedere le condizioni delle donne oggi. Posso immaginare quale esperienza difficile sia stata, ancora più difficile per una persona europea: io in quanto iraniano ero preparato a combattere, un europeo meno”.

Ricordando come “il giornalismo in Iran sia un mestiere difficile, non si possono documentare le proteste, sicché sono gli stessi manifestanti a farlo, all’insegna del citizen journalism, e condividere sui social”, Rasoulof sottolinea come “quando è iniziata la Jina ero in prigione da vari mesi a causa dei miei film precedenti: appena sono uscito, mi sono fiondato a gaurdare tutti i video che non avevo potuto vedere. Sapevo che avrei fatto un film clandestinamente, e come ricreare scene di protesta in un dramma concentrato in un appartamento? È importante riconoscere il ruolo dei social nel render più forti gli attivisti e dare loro coraggio per scendere in piazza, e l’impiego della realtà documentaria mi ha permesso di contemplare nel film la forza cruda della verità”.

Venendo al rapporto delle figlie col pater familias de Il seme del fico sacro, il cineasta rileva come “le figlie capiscono che stanno subendo una bugia, per anni non sapevano quale fosse il ruolo paterno nel meccanismo di potere e oppressione dello Stato: quando la loro amica Sadaf viene ferita, a quel punto immaginano un ruolo più grande del padre in tutto ciò, e quindi il confronto con la realtà scatena una reazione, sicché disarmano il padre”.

C’è di più: “La dinamica interna alla famiglia rappresenta la lotta tra tradizione e modernità, il ritorno alla casa paterna è un ritorno a passato, e l’immagine del santuario, un posto dove viene sepolto l’imam o il figlio dell’imam, mostra a mio avviso come sempre in Iran siamo sotto l’ombra del potere religioso”.

Se “l’aspetto del controllo e dell’imprigionamento della famiglia è importante”, nel film evidenzio come “la cultura iraniana è più ampia di quanto il sistema attuale voglia mostrare, a partire dal canto femminile che oggi è vietato”.

Sul fronte sociopolitico, Rasoulof asserisce di non credere che “la liberazione dell’Iran passi dalla violenza, perché la lotta delle donne rigetta qualsiasi forma di violenza: nel film, senza fare spoiler, il regime si seppellisce con la violenza nella tomba che si è creato”. Nello stesso alveo ricade, continua il cineasta, “un fatto di cronaca degli ultimi giorni, laddove due giudici infami e famosi sono stati uccisi davanti alla corte dal sottoposto che portava loro l’acqua: se la notizia va presa con le pinze, che dire, chi semina vento raccoglie tempesta”.

Ma Rasoulof tiene a precisare che la pistola presa in mano dalle figlie non vada intesa quale violenza bensì “forma di autodifesa: non indulgo nella passività, né nella resistenza armata”.

Sul fronte geopolitico, allorché dalla capitolazione di Assad alla decapitazione di Hezbollah lo scacchiere iraniano ha conosciuto un drastico ridimensionamento (e chissà che farà Trump al riguardo…), il cineasta dissidente dichiara: “Non faccio previsioni politiche, non ho l’expertise, ma la Repubblica Islamica ha perso molto terreno, la situazione è molto più fragile. Mi auguro che questi enormi cambiamenti portino a buon cambiamento per la gente comune, che l’Iran conosca la libertà”.

Ancora, in riferimento alla Jina (Donna, Vita, Libertà), Rasoulof osserva come “la lotta delle donne abbia radici molto antiche, l’ultima rivolta è l’ultimo anello di una lunga catena. Le donne non portano avanti solo richieste di diritti per le donne, ma molto più ampie, sui diritti umani per esempio. Ma queste lotte non sono portate avanti solo dalle donne, ma anche da tanti uomini, tra cui io”.

Rasoulof conclude guardando al Palazzo: “Due mesi fa il Parlamento ha mandato in approvazione una nuova legge sul modo di vestire delle donne, e il governo si è tirato indietro e non ha voluto approvarla: non perché non voglia, ma perché non può. Il potere politico cerca ogni occasione per reprimere, al momento c’è una vera e propria guerra quotidiana tra le donne e la società civile, da una parte, e la Repubblica Islamica, dall’altra”.