“Non avevo alcuna intenzione di girare un film. È successo con estrema casualità e leggerezza durante una telefonata con Sorrentino. Gli confessavo che, dopo tanti anni ero stanco di scrivere, con il mondo intorno a me così cambiato. E lui di getto mi ha detto: ‘Facciamo al rovescio, tu fai il regista e io produco’. E io ho accettato”.

Dopo il doc Parole, Umberto Contarello, tra le penne più brillanti del nostro cinema, dirige l’auto-fiction L’infinito scritta con il regista napoletano, battezzata al BIF&ST 2025 il 26 marzo prima del viatico in sala con Piper Film il 15 maggio.

Contarello, oltre che sceneggiatore e regista, è anche protagonista del film. È la prima volta.

“Onestamente non se n’è neanche discusso con Sorrentino. Era ineluttabile che lo facessi su di me e lo interpretassi, perché sulle altre persone i miei colleghi scrivono molto meglio: l’unica cosa alla quale posso accedere è me stesso”.

Com’è stato, allora, il processo di scrittura a quattro mani, sapendo che avresti diretto tu e non lui.

“Identico alle altre. Scriviamo sempre a distanza, mandandoci le scene. Abbiamo un tipo di scrittura epistolare. Pur segnando il mio nome nei dialoghi, ho dato a questo Umberto caratteristiche e pensieri e idiosincrasie che è come se non mi riguardassero, rimuovendo l’idea che poi lo avrei dovuto interpretare io”.

Questo è un film sulla solitudine. Eppure, sul finale, quest’uomo in stato di abbandono si regala un filo di speranza, di futuro, d’infinito.

“È sempre difficile, scrivendo, immaginare un possibile happy end. Mi sono formato su film americani in cui ciò era proporzionato e mischiato alla malinconia del protagonista. Per cui ho creato un finale sotto le spoglie di un possibile nuovo inizio, l’inizio di tutte le cose”.

Il protagonista pare impegnato soprattutto a ricucire le relazioni dell’esistenza. È questa l’unica risposta alla solitudine?

L’infinito è un film-gambero. Il protagonista vive in un tempo immobile, bloccato, ma è spinto da una forma di sopravvivenza: non si fa trascinare verso l’abbandono, ma lentamente ricostruisce e ricalca orme del passato per arrivare a capire che il passo indietro più importante è quello con la madre. L’infinito è la storia di uno che sembra non andare da nessuna parte, ma inconsapevolmente ricuce ciò che non ha controllato, che ha trascurato, con il quale è stato sciatto. Racconto una ricostruzione tardiva che in fondo tardiva non è”.

Si potrebbe apparentare, allora, più che a La grande bellezza, a Il ritorno di Casanova?

“Uno dei progetti che avevamo con Sorrentino era proprio rifare Casanova. Rispetto a La grande bellezza c’è uno slittamento temporale: Jep ha un passato ricco che frequenta come un reduce. Casanova, Gambardella e Umberto hanno in comune tre modi diversi di affrontare la solitudine che scontano inevitabilmente, qualsiasi mondo frequentino”.

Lei ha filmato una Roma notturna, ombrosa, fatta di epifanie casuali. L’ha rimpastata con la sua immaginazione e le sue origini settentrionali?

“No. Volevo una città senza nessuna attinenza con quelle da cui provengo: una città baltica, del Nord, dov’è freddo e grigio e gli spazi sono vuoti. Dove un fiume non è il Tevere, ma potrebbe essere il Reno. Volevo una somma di frammenti che dessero senso plastico all’idea di solitudine. Non è né una città della memoria, né conosciuta, ma una che forse visiterò un giorno. È una intravista nei film, nelle serie, dove la solitudine diventa una forma concreta di vivere”.

Recentemente ha dichiarato di non credere alla supremazia della sceneggiatura nei film, allora cosa conta davvero per realizzarli?

“In letteratura conta non ciò che accade, ma la voce dello scrittore. Vuoi continuare a sentire le parole di quel libro all’infinito perché cantano. Al cinema, l’accadimento deve essere un pretesto per fami sentire la voce di un autore, ovvero lo stile. L’ultimo film per il quale l’ho sentita è Licorice Pizza di Anderson: con Sorrentino non riusciamo ancora a capire perché sia così bello. Mi ha commosso, emozionato, mi ha fatto dimenticare e ricordare di me. Ha un’idea nascosta che lo irradia e lo rende così straziantemente bello: l’ingenuità. Perché l’ingenuità ti può far inciampare nella poesia e nella lirica”.

L’infinito suggerisce, però, una postura etica ed estetica degli sceneggiatori: reclamare il diritto a scrivere scene inutili, non funzionali alla trama.

“Il difetto delle strutture visibili nei racconti è che tendono, soprattutto per spettatori di oggi che hanno visto centinaia di film, a far indovinare cosa accadrà dopo. Io cerco, invece, un avanzamento di racconto generale senza accostare scene che lo rendano prevedibile tramite rapporti di causa ed effetto. Questo accostamento crea la bellezza”.

In futuro farà più regie o più sceneggiature?

“Ho un copione che vorrei girare ma sarà molto difficile che qualcuno me lo produca: un film più leggero di questo, ma nella mia scala di genere e toni, lo definirei una commedia. Poi, in forma più embrionale, c’è il sogno dei sogni: un film sui Sillabari di Goffredo Parise”.

A proposito di Parise, il film è dedicato a Mazzacurati.

“Carlo mi manca molto, è il mio migliore amico, siamo cresciuti insieme a Padova. Da lui ho appreso come ogni storia è fatta di piccoli viaggi sognati e non fatti. Fu lui a regalarmi i Sillabari. I suoi film hanno sempre trame precise, ma con una veste lirica, poetica. A parte Pietrangeli, non ricordo altri registi italiani capaci di farlo; è tutto ciò che cerco quando scrivo”.