PHOTO
Le assaggiatrici
Dieci anni dopo la fine della Guerra, nel 1955, Georg Wilhelm Pabst gira L’ultimo atto, il primo film tedesco ad occuparsi di Adolf Hitler, da un racconto di Erich Maria Remarque (peraltro grande amore dell’antinazista Marlene Dietrich): la permanenza in sala è breve e la commissione preposta si rifiuta di classificarlo positivamente perché non rappresenterebbe un ritratto esaustivo del Führer e rischia di manipolare l’opinione pubblica. Va meglio all’estero, ma la critica ritiene che il ritratto del protagonista sia sopra le righe.
L’antifona è chiara: meglio non parlarne, d’altronde sono gli anni in cui il cinema tedesco cerca di purificarsi lanciandosi in film volti a enfatizzare la resistenza di alcuni generali a Hitler (qualche titolo: Il generale del diavolo, All’est si muore, Canaris). Ci prova pure Hollywood, a mettere al centro il male, ma anche La belva del secolo (1962) con un cerebrale Richard Basehart non trova l’attenzione sperata. Il materiale è infiammabile, gli eventi troppo recenti, il trauma ancora forte: un documentario è quel che ci vuole, la cosa migliore per fare ordine, e Black Fox: The Rise and Fall of Adolf Hitler, di produzione statunitense e narrato proprio da Marlene, vince addirittura l’Oscar.
Se la Germania si ritrova in altri conflitti e si rivela impreparata a ripensare l’ora più buia, per consegnare definitivamente Hitler e, in generale, il nazismo al cinema bisogna aspettare il grande artigianato italiano: Ennio De Concini, leggendario sceneggiatore già Oscar per Divorzio all’italiana, debutta alla regia nel 1973 con Gli ultimi 10 giorni di Hitler, una coproduzione con la Gran Bretagna che si avvale di una gigantesca interpretazione di Alec Guinness. Che, dall’alto della sua sapienza, coglie l’aspetto fondamentale e inconfessabile: l’esercizio del fascino. Malsano, perverso, devastante, naturalmente, come tutti i tiranni. Il cinema italiano, appunto. I cui rapporti col fascismo, lo sappiamo, sono stati stretti sotto il regime, espiati dopo la Liberazione, rimossi nel dopoguerra e finalmente affrontati di petto dalla fine degli anni Cinquanta.


Kapò
Gillo Pontecorvo osa l’inosabile con Kapò (1960), un film diventato modo di dire, quasi ridotto a un’espressione fortunata quanto tranchant (ah, la critica!): “il carrello di Kapò”, quello additato da Jacques Rivette sui Cahiers du cinéma, con la condanna del suicidio di Emmanuelle Riva sui fili elettrificati del campo di sterminio. Non torniamo su una polemica storica ma rileggiamo la “autodifesa” di Pontecorvo: il focus non va concentrato sul gesto estremo della prigioniera ma sull’indifferenza – anzi, l’assuefazione – alla morte delle deportate sullo sfondo, senza dimenticare che la protagonista incarna proprio la tragedia del contagio.
Al di là dei giudizi estetici o delle eventuali opinioni morali, è qualcosa di perturbante che interroga il rapporto tra vittime e carnefici e annuncia un fortunato e “sgradevole” filone del decennio successivo. In quel vivace cinema italiano, cosmopolita per visione globale e talenti coinvolti nonché così disponibile a rileggere il passato senza eludere le conseguenze del senso di colpa, il nazismo diventa lo spazio in cui esplorare il versante perverso del legame tra aguzzini e prigionieri, una camera anatomica dove osservare e analizzare un’angosciante e mortuaria sindrome di Stoccolma.
“Non c’è niente di più contagioso del male” diceva l’Eccellenza di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), l’atto terminale di Pier Paolo Pasolini, non a caso primo titolo di una Trilogia della Morte rimasta interrotta. Che la pulsione funebre attraversi molti autori di quella stagione è indiscutibile (Ultimo tango a Parigi e Il Casanova su tutti) e, in questo senso, la stagione nazista diventa non solo un’estensione di quel fascismo ripensato da Pasolini ma perfino un “luogo” esotico dove riflettere sull’abiezione dei mostri dal volto umano e sui danni subiti da vittime che si scoprono dunque capaci di tutto.


Il portiere di notte
È Il portiere di notte (1974), il capolavoro di Liliana Cavani, a descrivere bene questa tendenza: più che la ricerca è il ricatto del tempo perduto, una catabasi che si confronta con il desiderio più osceno. La traccia dell’umano nel disumano che ritroviamo, in chiave grottesca, anche in Pasqualino Settebellezze (1975), dove l’antieroe di Lina Wertmüller, finito in un lager, usa il sesso con l’orrenda comandante (ispirata alla sadica Ilse Koch) come merce di scambio per sopravvivere all’orrore.
E, un anno dopo, Salon Kitty porta il discorso talmente all’estremo da sconfinare nella Nazisploitation, fenomeno che unisce immaginario sessuale, genere bellico e orizzonte horror nel contesto nazista, occasione industriale per girare produzioni economiche ad alto potenziale commerciale (qualche titolo: Ilsa la belva delle SS, La svastica nel ventre, Le lunghe notti della Gestapo).
In un’epoca di revanscismi e revisionismi e in un contesto industriale completamente diverso, un film come Le assaggiatrici torna alle origini della riflessione tra desiderio e paranoia, dolore e ossessione, affrontando la relazione pericolosa tra vittime e carnefici attraverso quella che è un’evidente metafora: corpi di donne usati dal regime per scongiurare la morte del capo. Una lezione sulle conseguenze del contagio.