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Una spiegazione per tutto
Tutto è politica, tutto è politico. Anche un esame di maturità, punto di partenza (e di approdo) di un film magnifico, Magyarázat mindenre di Gábor Reisz (arriverà in Italia con il titolo Una spiegazione per tutto), miglior film nella sezione Orizzonti di Venezia 80. Istantanea di un presente specifico, quello dell’Ungheria di Viktor Orbán, che sa inquadrare il destino di un intero continente, la fragile Europa unita per ambizione e divisa per vocazione.
Un film lungo e incessante (due ore e mezza), parlatissimo senza correre mai il rischio di diventare verboso, ambientato in una Budapest calda (si suda) e nuvolosa (si cerca un raggio di sole, si trova l’ombra), suddiviso in capitoli che attraversano una settimana apparentemente come tante altre e invece destinata a dividere l’intero Paese. Crocevia della nazione è Abel, liceale allampanato e distratto che non sembra del tutto consapevole dell’importanza dell’esame: è innamorato (a rischio friendzone) di Janka, brillante compagna di classe e migliore amica, a sua volta invaghita del professore di storia, l’aitante Jakab, un liberale ostile a Orbán che a un colloquio a scuola ha litigato con il padre di Abel, un conservatore che non rimpiange il Novecento socialista.
Avendo fatto scena muta, Abel viene bocciato all’esame di storia, ma la coccarda tricolore sul bavero (rimasta lì dalle celebrazioni del 15 marzo, festa nazionale in cui si ricorda la Guerra d’Indipendenza del 1848) viene notata da Jakab: apriti cielo. Il papà di Abel si convince che la bocciatura sia legata a motivi politici (negli ultimi anni indossare la spilla è diventata un simbolo dei nazionalisti, chi non la indossa è considerato un oppositore), la voce gira (straordinario il “percorso” compiuto dalla notizia che trasforma una capitale in un quartiere: dal taxi al parrucchiere fino a un condominio, che sancisce anche una nuova fase del film) e arriva alle orecchie di una giovane giornalista rampante d’area governativa, ben contenta di costruirci su un caso nazionale.
C’è una spiegazione per tutto, appunto, ma Reisz (ed Éva Schulze che ha scritto la sceneggiatura con lui) sa che ognuno si dà le spiegazioni che vuole: è incredibile la sua capacità di descrivere il profilo di una nazione segnata da un conflitto al momento insanabile, una frattura così radicata nel quotidiano e feroce nella rappresentazione da impedire un dialogo civile tra le parti (ci si disprezza o si urla, tutto qui).
Con lo sguardo di chi sa collocare l’espediente cronachistico su un piano romanzesco che non rinuncia a una coscienza saggistica, Reisz costruisce un film magmatico e complesso nel solco di Sieranevada e Vi presento Toni Erdmann (particolare e collettivo, privato e continente), appassionante per la tessitura narrativa che fa incrociare persone e destini, politico nella misura in cui interroga le contraddizioni di un popolo (“Cosa non si può fare in questo Paese?” si chiede Jakab dopo un favoritismo; “Dicono di amare il proprio paese ma si vergognano di essere patriottici” glossa il padre di Abel; la “narrazione ufficiale” dei fatti del 1956 che si scontra con i ricordi forse “rimaneggiati” di chi c’era), mette al centro la parola e le sue conseguenze, individua nell’istruzione il teatro dello scontro, nel giornalismo l’arma di lotta, nella famiglia lo spazio da cui emanciparsi.
Un film vorticoso e incalzante, stratificato e sorprendente: sa essere commedia di costume, scannatoio familiare, racconto di formazione, trattato politico, racconto morale. Travolgente come le corse in bici con cui Abel cerca di fuggire dal mondo, sorprendente come il futuro che gli si apre davanti nel finale poetico.