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Tilda Swinton e Julianne Moore in The Room Next Door
Che la morte sia da sempre un tema centrale nell’opera di Pedro Almodóvar non lo scopriamo oggi: il melodramma, d’altronde, cioè l’universo elettivo che il maestro spagnolo ha contribuito non solo a rinnovare ma proprio a ridefinire, non può prescindervi, legato com’è al desiderio, dunque all’amore. Ma mai come negli ultimi anni – complice forse il tempo che passa – il confronto con la morte si è fatto sempre più serrato, riallacciandosi a quella tensione tra i due secoli che ha portato Almodóvar alla definitiva consacrazione internazionale.
The Room Next Door (da noi La stanza accanto, primo lungometraggio in lingua inglese per il regista, dal romanzo What Are You Going Through di Sigrid Nunez e Leone d’Oro a Venezia 81) rivendica una continuità con i capisaldi di quella fase, Parla con lei e Volver in primis, e ribadisce una coerenza tematica con gli ultimi lavori (mettiamo da parte la parentesi “volgare” di Gli amanti passeggeri), tutti a loro modo in dialogo nel dare voce a un movimento introspettivo che ha a che fare con il senso della fine, dall’autoriflessivo Gli abbracci spezzati che postulava il capolavoro della maturità Dolor y gloria e Julieta che nel dramma privato annunciava quel che poi Madres paralelas avrebbe espanso fino a convocare i fantasmi di un’intera nazione.
Nell’affrontare la morte, Almodóvar si preoccupa dei vivi: ce lo dice chiaramente con quel titolo che indica il luogo in cui si consuma il dramma di chi resta. Sommersa e salvata, a seconda dei punti di vista, sono Martha, reporter di guerra che si chiama come Gellhorn, citata esplicitamente così come il suo terzo marito (Tilda Swinton), Ernest Hemingway, e Ingrid, scrittrice di romanzi semiautobiografici, come Bergman, di cui vediamo la locandina di Viaggio in Italia in programmazione al Lincoln Center (Julianne Moore).
Sono (state) amiche, “intimissime” ci dicono, hanno condiviso molto (gli anni Ottanta underground e un po’ bo-bo, in cui le cose che contavano accadevano solo di notte: che ci sia qui un ricordo per analogia della movida post-franchista?) per poi perdersi di vista e ritrovarsi, per caso o per desiderio poco conta, al crocevia di un momento fondamentale per una delle due.
Altro sulla trama conviene non dirlo, però l’onomastica rivela molto. Martha porta in dote l’eredità simbolica di un’icona del settore, quasi fosse “predestinata” al ruolo di testimone di qualcosa, e ci rivela che anche quel mestiere così incentrato sulla restituzione della cronaca può trasmettere qualcosa che ha a che fare la finzione. Un pezzo che poi resta in un cassetto, d’accordo, ma la tentazione del “romanzesco” (l’amore clandestino sotto le bombe tra un fotografo di guerra e un missionario carmelitano, quasi un’evocazione del fu Almodóvar più iconoclasta) ci dice che per lei l’atto del raccontare è sintonizzato anche sulla pratica del rielaborare (i frammenti del passato sono posticci, quasi a metterci in guardia), sul sottolineare quanto la verità possa essere un prisma, che il punto di vista su una storia – la propria in primis – è tanto inviolabile quanto aperto alla possibilità che ne esistano altri.
Ingrid, invece, sembra interpretare i dolori altrui: con quel nome detonante (Almodóvar ha diretto Swinton in The Human Voice, già interpretato da Anna Magnani mentre Roberto Rossellini la stava lasciando per Bergman, che a sua volta ha ripreso il ruolo diretta da Ted Kotcheff: Moore si porta dietro questi spiriti) quindi emblema del recitare per vivere, parla di sé (nei suoi libri parla della paura della morte) ma non a sé, progetta un nuovo romanzo in cui rievocare il matrimonio tra la pittrice Dora Carrington e lo scrittore gay Lytton Strachey e l’amicizia con Virginia Woolf (e Moore non era anche epicentro di The Hours?) senza rendersi del tutto conto che quella storia si specchia in un suo antico ménage à trois.
Questi nomi ci aprono porte sui panorami emotivi delle due donne e ci raccontano di loro più di quanto loro stesse si preoccupino di fare. Ed è un elemento a favore all’interno di una sceneggiatura incardinata sulla parola, un mélo della conversazione più che dell’azione, qua e là informativa se non proprio letterale. Almodóvar parla del film come di “un vero e proprio recital” in cui “sono gli attori a raccontare davvero la storia”, ed è forse la chiave più interessante per capire ragioni e sentimenti di questa produzione di grande eleganza formale (fotografia di Edu Grau), in cui i temi rischiano continuamente di prendere possesso del film fino a farlo prigioniero.
Il tema, messo al centro dallo stesso autore con passione e convinzione, è l’eutanasia, qui descritta nei termini di “fine dignitosa” allorché le terapie per curarsi risultano vane se non controproducenti. È un film politico che non cede all’ideologia in cui la questione della scelta personale si configura quale diritto inalienabile, ma rispetto alla coriacea ostinazione dell’una è più interessante esplorare il dubbio dell’altra, finita nel crinale tra complicità e paura.
The Room Next Door è stare accanto alla morte mentre arriva, annunciata da una neve rosa (le sorprese dei cambiamenti climatici) che cita apertamente Gente di Dublino – vediamo le immagini dell’ultima regia di John Huston, che in originale si chiama, appunto, The Dead – e che poi ricorre costantemente. Come nel dialogo molto didascalico tra Moore e John Turturro (l’antico pezzo del triangolo, diventato professore e conferenziere che non risponde alle domande del pubblico per non perdere un tempo di cui non sa bene come disporre) in cui la solastagia (il disagio causato dal cambiamento ambientale) incrocia i postumi della pandemia (ma questo teatro espanso non è, in fondo, la versione deluxe di un “film-Covid”, con pochi ambienti e pochi interpreti?) solo per riferirci quanto l’ansia per la fine del mondo sia una delle figure della morte (chiedersi perché generare altre vite mentre il mondo sta finendo si lega al constatare che sopravvivere sapendo di morire non è sostenibile).
Nel suo interrogarsi sulla fine e quindi su un tema che riguarda tutti, sceglie di costruire un mondo a parte, visto attraverso vetri nei quali personaggi e ambienti si sfumano fino a confondersi. Da qui sembrano arrivare questi interni elitari che sembrano showroom o set a seconda delle visioni (scenografia di Inbal Weinberg), in cui indossare abiti tanto significanti per cromatismi, dimensioni, tessuti e fattezze quanto evidenti espressioni d’alta moda (costumi di Bina Daigeler).
E tesi e tematiche così dentro la realtà si sviluppano su un asse non del tutto realista, dove si muovono una Swinton fantasmatica che capitalizza incarnato chiaro e fisionomia androgina per collocarsi tra chi resta e chi se ne va e una Moore più calda e irrequieta, nonché unica ad avere rapporti con altre persone. Infatti, se Swinton per tutto il film si relaziona solo con lei, quasi fosse già uno spettro del passato, Moore incontra non solo Turturro ma anche un personal trainer, un poliziotto (questi uomini non sono mai all’altezza delle aspettative: danneggiati, depressi, impacciati, fanatici) e, nel finale, una figura che si rivela più spiazzante del previsto.
E quella tra le due donne è anche la storia di un amore interrotto e ritrovato (Lettera da una sconosciuta, allusivo, è uno dei film che vedono insieme), che trascende la carne e si rivela nell’incontro spirituale. Più che un film terminale, The Room Next Door è una porta aperta che ci appare come il tassello di un’opera coerente, non solo nel suo prendere posizione sul mondo attraverso il racconto delle passioni ma anche, proprio alla luce degli ultimi film, nel suo tentativo di mettere ordine al caos, riallacciare i fili spezzati, fare pace con il passato per incaricarsi della speranza futura.