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Martin McDonagh: buon regista non mente. Dopo l’epifania di In Bruges (2008), di cui mutua la coppia protagonista Colin Farrell e Brendan Gleeson, l’ambizioso e perfettibile 7 psicopatici (2012) e il successo Tre manifesti a Ebbing, Missouri (due Oscar nel 2018), il britannico di origini irlandesi sbarca nella sua terra madre, ovvero un'isola al largo della costa occidentale, e distilla un dramedy acuto, dallo humour amaro e il voltaggio filosofico, Gli spiriti dell’isola, in Concorso a Venezia 79.
Gli spiriti dell’isola, titolo con cui arriva nelle nostre sale il 2 febbraio 2023, segue due amici di lunga data, il “noioso del villaggio” Padraic (Farrell) e il più maturo, burbero violinista Colm (Gleeson), il quale senza preavviso né un motivo reale, eccetto il perdere tempo ad ascoltarlo, decise di troncare la relazione. Padraic, che è un pezzo di pane, non si capacita, non ci sta, tenta di riguadagnare il rapporto con il supporto della sorella Siobhan (Kerry Condon) e del giovane Dominic (Barry Keoghan), ma Colm non intende recedere dalla propria decisione: l’escalation porterà all’automutilazione, mentre dalla terraferma giungono gli spari e le esplosioni – siamo negli anni Venti del XX secolo – della guerra civile che flagella l’Irlanda.
Non è solo prossimità, ma induzione metaforica, persino allegorica: gli amici belligeranti riflettono il destino del Paese, di cui The Banshees of Inisherin è un distillato identitario, antropico e politico insieme. Fa i conti McDonagh, anche sceneggiatore, puntando la camera sull’eterogenesi dei fini e la genesi della fine: perché troncare un’amicizia, perché consegnarsi al male o comunque al peggio?
Mentre il poverocristo Padraic e il temerario stolido Colm godono delle ottime prove di Farrell e Gleeson, il film azione dopo esacerbazione, reazione dopo (mancata) riparazione si scopre una curvatura parabolica, una dimensione trascendente, almeno, la disputa strapaesana, la singolar tenzone di due bifolchi: la mette in campo il prete, a Colm nel confessionale, la parola magica, la spia rivelata, ed è disperazione.
L’accezione, al procedere del film sul piano inclinato della distruzione, diviene chiara, è la malattia per la morte diagnosticata da quel luminare del pensiero che è stato Soren Kierkegaard, ovvero il peccato dell’uomo contro il mondo, contro gli altri, contro Dio.
McDonagh la riverbera in Colm, e di rimando nel più candido – ma è davvero così? – Padraic, il cui scontro ha gli animali per spettatori laddove non vittime collaterali, e decidere dove più alberghi la bestialità non è semplice. Rimarranno forse l’onore dei cani e le cortesie per gli ospiti, ma l’isola, l’Irlanda e, sì, il mondo tutto è un posto in cui un bastone uncinato si comporterà come la proverbiale pistola nei film, e questa ineluttabilità, questa riduzione al nulla sa tanto di ieri come di oggi e domani.
Erano i giorni dell’IRA, ma poco è cambiato, né fortunatamente è mutato il cinema di Martin McDonagh: ha uno humour rivelatore, un’affabulazione esistenzialista, il peso delle conseguenze, lo stile senziente. Da premio, sì.