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L'infinito
Un grande sceneggiatore in decadenza. Un rapporto rugginoso con la figlia preadolescente, uno d’ironica complicità col maggiordomo, un figlio sconosciuto e ritrovato, una suora lavavetri da ammirare alla finestra di fronte, vecchi amori di ritorno, un produttore da riconquistare, script da vendere “con turning point” obbligato. Il complesso edipico (subito e trasmesso) da rinfacciare e sciogliere.
É L’infinito di, con e su Umberto Contarello, alla seconda regia dopo il doc Parole. Il film scritto a quattro mani con il sodale Paolo Sorrentino che co-produce (Numero 10) insieme a Mieli (The Apartment), sarà in sala (Piper Film) dopo il battesimo al BIF&ST 2025.
Opera dichiaratamente autobiografica, intimista e disarmata, dalla regia essenziale e statica (un solo carrello e poi tanta camera fissa), è fotografata in bianco e nero da Daria D’Antonio, musicata da Danilo Rea e dedicata a Carlo Mazzacurati, per cui Contarello firmò le prime sceneggiature.
Sin dal titolo, sovviene fin troppo immediato il parallelismo con Jep Gambardella, per età (sessantaquattro per “Umbe”, uno in più per il protagonista de La grande bellezza), immancabili sigarette e drink in mano, sfiducia verso il futuro, auto-commiserazione, inappagante sesso occasionale, vecchi amori rimpianti, solitudine, inaridimento scrittorio, rifugi in una Roma notturna, che è palcoscenico dell’inconscio, snaturata e punteggiata di epifanie, incontri e fugaci momenti di estasi.


Umberto Contarello e Alessandro Pacioni in L'infinito
Detto del cóte borghese che affratella i due film, però, Contarello spinge il suo confessionale in una dimensione più sentimentale, intimista e familista, meno estetizzante e onirica rispetto alla poetica sorrentiniana.
Porta L’infinito, insomma, dalle parti di This Must Be The Place (prima sua collaborazione alla scrittura con Sorrentino), occhieggia al decadente Il ritorno di Casanova di Salvatores (co-sceneggiato anch’esso durante la realizzazione del film), si autoritrae, senza remore, come un uomo sul precipizio impegnato a rammendare le scuciture relazionali dell’esistenza: una figlia Elena scostante, ricercata oltre l’inadeguatezza che gli preferisce la madre; la scoperta di un altro figlio avuto da un vecchio amore; una produttrice e una giovane sceneggiatrice da convincere della bellezza dell’inutile nella sceneggiatura della vita; la madre da perdonare.
Garantito il principio di identificazione con (micro)drammi e spossatezze del protagonista, intorno a lui prendono, comunque, a ruotare tutti i sorrentinismi di rito che molto dicono sia dell’euritmia tra i due autori, sia del peso specifico della penna padovana nella poetica del regista partenopeo: silenzi sospensivi e solitudine, suore e sesso, hotel e piano bar, il nume Fellini (il redde rationem cimiteriale alla madre) e l’anti-narratività, il Tevere, via Veneto e Piazza Navona, la ricerca delle radici e i bagliori del passato perduto.
Insomma il futuro è passato anche per Contarello. Ma lui se n’è accorto.