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Il filo nascosto © Laura Hynd
Quando il cinema è un lusso. C’è il vellutato sospetto, se volete il serico sentore, che la Settima Arte stia facendo, e sempre più, taglia e incolla, annoverando stilisti in guisa di stili, maison a supplire studios, griffe e brand quali alfieri di una sartoriale politique des auteurs.
Il francese non è peregrino, ma d’obbligo, accezione noblesse oblige: Kering se la comanda a Cannes, Cartier a Venezia, a convegno o al bicchiere poco importa, rien ne va plus.
E non finisce qui: il prêt-à-tourner è quello di Anthony Vaccarello per Saint Laurent, che dopo il corto di Pedro Almodóvar Strange Way of Life tenuto a battesimo sulla Croisette ultima scorsa ci ha preso gusto e ora ha messo lo zampino produttivo nel nuovo lungometraggio di Paolo Sorrentino, provvisoriamente e vieppiù furbescamente intitolato L’apparato umano, come il primo e unico romanzo di un elegantissimo viveur che conosciamo bene, Jep Gambardella.
Realizzati in gran parte dalla sartoria napoletana Cesare Attolini, i suoi abiti, epitome stessa di Grande bellezza (2013) e sapientemente abitati da Toni Servillo, fanno il monaco, ovvero il dandy, e “sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura…” sedimentano un incantamento che è tutto e niente, ogni cosa e il suo contrario: “Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile”.
Sotto il vestito niente? I Vanzina asserivano, oggi il dubbio incalza, il nichilismo calza, ma sullo schermo, e nella non meglio precisata e forse mai esistita società dell’immagine, essere visti, più che vedere, equivale a vivere. E dunque? Vesto ergo sum, indumenti per identità, fogge per segni particolari, passerelle per domicili – non è più modus, ma moda operandi.
La catwalk evoca catwoman, le griffe sono al tappeto (rosso), i brand in campo (lunghissimo): i fashion film sono forse i prodromi del cinema che verrà – e che già oggi veste e lotta con noi? Gus Van Sant per Gucci, Luca Guadagnino per Pierpaolo Piccioli – ah, nomen omen… - chez Valentino, chi si somiglia si piglia: girano i soldi, (si) girano i film, e i vasi comunicanti s’abbeverano alla fonte primaria, Coco Chanel, che “la moda non è un qualcosa che esiste solo sotto forma di abiti. La moda è nel cielo, nelle strade, la moda ha a che fare con le idee, il modo in cui viviamo, ciò che accade”. Ciò che si filma, ciò che – letteralmente – dà nell’occhio: cabine armadio e cabine di regia, Richard Gere che abbina cravatte e camicie in American Gigolo (Paul Schrader, 1980), l’epifania cinematografica di Re Giorgio, e Armani, sponsor con Beauty della Mostra, che regala – e insieme ruba – la meglio notte dell’80. festival, l’intesa One Night Only.
Armani insegna, il Re non è mai nudo, al più in déshabillé, e quel vedo/non vedo istruisce una nuova sintassi cinematografica: non è forse la cannense – ci perdoni il Lido, non c’è storia - Montée des Marches l’espressione massima della moda fatta cinema, e viceversa? Già, una volta ci si conciava per le feste, oggi si concia per i festival. Tira di più uno stilista che un costumista, i registi si scoprono – modelli no, non esageriamo – fashion influencer, con esiti discutibili o forse solamente l’inveterato “purché se ne parli”. Fabio e Damiano, D’Innocenzo sul set, colpevoli sul carpet – e Alessandro Michele alla sbarra.
Al solito, aveva capito tutto Andy Warhol: “La moda non era quello che indossavi in un qualche posto; era la ragione per andarci”. Qualcuno non è più tornato, qualcun altro ce l’hanno mandato, ma le stelle non stanno a guardare, stiamo a guardarle – e le diottrie sono nostre. Quando Sophia Loren fa lo spogliarello per Marcello Mastroianni (Ieri, oggi, domani, Vittorio De Sica, 1963) lo stolto guarda la calza, ma oggi lo incenseremmo fashionista: il collant calato sul volto, la rapina è dell’immaginario, la refurtiva ultramondana, Il filo nascosto (Paul Thomas Anderson, 2017) – e Daniel Day-Lewis ciabattino a Firenze tra gli sparuti set.
Non si sfila nessuno, dalla moda del cinema (generale) e dal cinema della moda (particolare), e l’ecumenismo binoculare ingaggia il Federico Fellini delle sfilate a uso e consumo ecclesiastico di Roma e il fu Benedetto XVI che credevamo il Diavolo vest(iss)e Prada e invece no, era il Papa. Henry David Thoreau predicava “l’importante non è cosa guardi, ma cosa vedi”, che per lo spettatore medio è un’utopia e per il frontrow una necessità. Ci siamo vestiti, svestiti e – copyright Dagospia – pervestiti: Vestito per uccidere (Brian De Palma, 1980), è stato ricambiato, oggi si uccide per vestirsi, l’imprescindibile è il superfluo, e il superfluo è l’audiovisivo.
Orange is the new black ha sparigliato i colori, Succession ha dato del Loro (Piana) ai nuovi ricchi, e ricordare un divo per il red carpet anziché per il film è ormai una prassi social(e). Armani vuole che “nella società dell’apparire occorre apparire, ma l’essere oggi rappresenta ancora un valore”, e ha ragione, ma tocca intendersi sul valore: è la quota di mercato di Gucci, i miliardi di LVMH, che cos’altro? Non c’è soluzione di continuità tra set e carpet, studio e maison, perché il miracolo della scena è il miracolo dell’osceno: i modelli di Gucci con la propria testa in mano, effetto speciale prêt-à-porter.
Se con John Galliano “la moda è prima di tutto l’arte del cambiamento”, dove stiamo andando oggi, dove il combinato disposto cinema-moda ci sta traghettando? Dal vedo ergo sum al vesto ergo sum, il primo passo è compiuto, ma la sensazione è che altre, e più decisive, falcate arriveranno: nel futuro prossimo saranno i film, e quelli fashion in testa, a vederci. Potreste chiamarla intelligenza artificiale, ma l’interrogativo di senso non permuta e non smobilita: come la vestiremo questa benedetta AI? Come abbiamo sempre fatto, intelligentemente e artificiosamente, assecondando l’ineffabile, inarrivabile Oscar Wilde: “O si è un'opera d'arte o la si indossa”.