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Vermiglio
Da qualche parte tra il Trentino e l’Alto Adige, tra il ‘44 e il ‘45, Maura Delpero ha ambientato il suo secondo film, la storia di una sposa di guerra a un passo dalla pace. Prima di tre sorelle, Lucia vuole essere soltanto consorte e madre. Ada e Flavia non ci stanno, più curiose e ambiziose, o forse semplicemente diverse, vorrebbero tanto studiare ma non decidono loro del proprio destino.
Diversamente da Maternal, debutto “argentino” e tutto femminile in un convento di suore che cullano madri precoci, Vermiglio abita la sua epoca e accomoda un uomo in cattedra, letteralmente. Perché Tommaso Ragno, sotto i capelli mai così bianchi, è un padre-maestro. Arroccato al suo banco, tuona giudizi e sentenze e poi decreta l’avvenire dei suoi tanti figli. Perché i tempi sono duri e non può permettersi di mandarli tutti ‘a studiare’ in città. E allora tocca sceglierne uno, di norma il maschio primogenito ma non è questo il caso. Al figlio maschio e senza speranza, come Zeno preferisce la sorella più dotata e su lei punta tutto, soprattutto il suo tempo, le sue lezioni, le sue nozioni.
Intorno, tra le Alpi “paurose e belle” e le foreste impenetrabili, i cieli sopra e i letti condivisi sotto, c’è una “classe” affollata di bambini che Delpero dirige ancora una volta con sensibilità ed efficacia. Del resto, l’autrice conosce bene la sua “materia”, è un’ex insegnante di letteratura venuta dal documentario. In quello che scrive non c’è nulla che ricordi una sceneggiatura di finzione, che finge di assomigliare alla vita solo per distorcerla meglio. Prima dell’infanzia è la ‘pelle dura’ dell’infanzia che fa giocare nel pieno senso della parola (francese).
In Vermiglio, come in Maternal, rifiuta il pittoresco nelle battute e nelle parole delle fanciulle e dei fanciulli, mai addomesticati ma bambine e bambini veri sulla soglia dell’adolescenza e in procinto di inventare la vita. Materia patetica a priori, gli accorda la stessa importanza degli adulti, prendendola sul serio ma senza concessioni alla sua tirannia. Guardando i suoi film non si pensa a sviscerare la tecnica, i movimenti di macchina o l’architettura delle inquadrature, anche se Delpero ama la m.d.p. fissa e i piani fissi, come in pittura e in fotografia lascia allo spettatore il tempo di vedere. Tra tenerezza debordante e pudore esemplare le sue opere osservano da vicino i comportamenti, fedeli all’atmosfera che respirano. Il realismo del suo cinema è il movimento stesso della vita.
Dopo un viaggio nella sua immaginazione latina, Maternal è (anche) un film sui bambini che scoprono il mondo dentro e fuori un’istituzione religiosa di Buenos Aires, Delpero torna alle origini, alle sue montagne in un’immersione ancora una volta piena di empatia, dove le frontiere invisibili tra materiale e spirituale contemplano punti di passaggio e desideri di fuga. Al chiostro geometrico del primo, sostituisce il rilievo della montagna, dove un “disertore" approda e innamora una ragazza come in una ballata di De André. Anche il suo “Andrea” si è perso e non sa tornare. Rifugiato nel piccolo villaggio del titolo, il soldatino ha un dolore e riccioli neri ma non morirà “ucciso dalla mitraglia”. Il destino ci mette dito e pistola. Un colpo e restano due bambini, due vedove, due madri.
È ancora questione di maternità per l’autrice, quella cristiana ieri, quella laica oggi. È di nuovo questione di “attaccamento”, il legame fisico e affettivo che si crea (o no) tra madre e figlio, a cui la regista risponde con una messa in scena sensibile che si muove fluidamente e incessantemente tra cucine rustiche e aule scolastiche, sentieri e boschi, e un lungo viaggio in mare. Al centro di questo studio sulla maternità c’è Lucia, “vergine senza bambino”. Una sorta di beatitudine celeste irradia da lei sulle sorelle, alla ricerca di una libertà che è utopia in una società in cui gli uomini hanno campo libero e a loro è riservato solo lo spazio domestico.
Delpero non cede mai al manicheismo, sviluppando la sua storia attorno a tre giovani donne dalle personalità radicalmente diverse e al loro padre, tutti ugualmente trafitti dalla m.d.p. Partendo da un fatto di cronaca (pure Maternal era fiction basata su eventi reali) Delpero racconta di nuovo una storia di donne sole, a volte combattive e a volte rassegnate a una condizione restrittiva. Storia di donne circondate da uomini assenti o soggette all’uomo a capo dell’istituzione cattolica o di quella familiare.
In un’atmosfera di isolamento permanente, è tutta una questione di sopravvivenza e di sogni repressi, l’autrice disegna ritratti intimi incarnati da attrici di straordinaria naturalezza. I silenzi e gli sguardi sono mirabilmente nutriti dalla recitazione, che sviluppa un sentimento di empatia nello spettatore, un desiderio condiviso di azione e di autodeterminazione. Che sia un convento o una modesta casa di montagna, i piccoli mondi che osserva sono tanto solitari quanto pieni di vita, difficile dire se siano rifugio o prigione. Dentro avanzano silhouette gentili, ritratti rigorosi ma tutt’altro che austeri, grazie al calore e all’accuratezza delle scene di vita quotidiana, segni indelebili di un occhio affinato nell’esercizio documentaristico.
I suoi microcosmi sono volontariamente lontani dalla società, a partire dalle sue attrici, mai soggetti sociali ma individui particolari, con gesti, discorsi e sguardi che le fanno esistere al di là del percorso inventato dal film. La drammaturgia adottata da Vermiglio è quella di Maternal, una “Trinità”, una triangolazione, una geometria variabile di ‘sorelle’ fino a trovare un punto di equilibrio in cui ognuna si rivelerà e troverà il suo posto. E noi ‘crediamo’ nel suo foyer argentino, come in quello alpino, crediamo nelle sue ragazze sprovvedute che ridono, discutono, leggono, si toccano o fanno l’amore come se la m.d.p. non ci fosse. Come se ci fossero solo loro al mondo, piene d’amore e di grazia dentro film che ci rendono migliori.