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Avevo sedici anni quando un amico più colto di me, sfoggiando un pesantissimo hard disk dentro al quale erano approdate opere piratate da tutti i continenti, mi chiese se avessi mai visto un film di David Lynch. Nel paese di ottocento anime dove sono cresciuto potevo permettermi di dire di no senza vergognarmi e dopo avergli confessato che non lo conoscevo lui mi propose la visione di un’opera che, a suo modo di vedere, avrebbe rappresentato il giusto primo passo per avvicinarsi a un autore meraviglioso ma, disse, non per tutti. Il primo gradino della scala Lynch che mi apprestavo a salire era Velluto blu.
Seduto davanti al monitor di non ricordo quale Windows vidi un film che mi pizzicò l’intestino ma di cui, più di qualunque altra cosa, mi rimasero impressi nella retina i primi due minuti. Jeffrey, il protagonista, deve ancora arrivare e Lynch indugia nel presentarci la cittadina di Lumberton, perfetto prototipo della quieta e ridente periferia americana. Le case sono magnifiche, per strada regna l’ordine, i fiori sono sgargianti e le persone serene. Un uomo annaffia con la canna dell’acqua uno splendido giardino quando di punto in bianco ha un malore e crolla a terra. Un bambino che ha appena imparato a camminare si avvicina curioso al signore privo di sensi mentre un cagnolino accorre per mordere l’acqua che sgorga fuori dalla canna.
Lynch abbassa la macchina da presa e, a poco a poco, scende giù, nella terra. Scrostando la patina dorata del rassicurante mondo umano ci conduce fino agli insetti che, brulicando e masticando, abitano un sottosuolo a cui gli uomini hanno voltato lo sguardo per occuparsi dalla lucente vernice degli steccati e dei sorrisi da réclame pubblicitaria. Così, nel meraviglioso addobbare la terra al fine di celarne il putridume, l’uomo ha finito col dimenticarsi di appartenere al medesimo regno delle formiche che vivono sotto i suoi piedi. I primi due minuti di Velluto Blu sono l’allegoria visiva di un tema che scorre lungo tutto il film e, forse, sono anche la sineddoche di un conflitto che sfiora l’intero cinema di Lynch e si avvera nell’attrazione-repulsione tra ciò che è emerso e ciò che è sommerso.
Nel periodo in cui vidi il film, al liceo studiavamo lo Zibaldone di Leopardi e quando mi capitò di leggere “il giardino della sofferenza” mi ritrovai davanti a un’allegoria che, al netto delle differenze nelle intenzioni degli autori, mi riportò Velluto Blu agli occhi. Leopardi presenta al lettore un giardino che a un primo sguardo non può che essere giudicato incantevole, poi invita a considerarne meglio i dettagli portando l’attenzione su una splendida rosa che viene offesa dal sole fino ad appassire, su un bel giglio che viene crudelmente succhiato dall’ape, sugli alberi che, per quanto possenti, sono infestati da formiche, mosche, lumache e zanzare. Leopardi ricorda al lettore che anch’egli è parte del regno animale e, pertanto, destinato allo stesso infelice destino della rosa, del giglio e dell’albero. La bellezza apparente del giardino leopardiano è la stessa della periferia americana e entrambi sono meravigliosi tappeti che nascondono il putridume della nostra condizione animale.
Nel mio primo incontro con David Lynch la mia mente d’adolescente galoppò veloce e nell’accostarlo a Leopardi mi insegnò che nel cinema può annidarsi la più sublime poesia. Sono trascorsi parecchi anni da quel giorno, il liceo è un ricordo nostalgico e i film di Lynch li ho visti tutti; eppure, sebbene si possano riempire biblioteche scrivendo di un uomo che senza dubbio è stato uno dei più grandi registi di sempre, desidero concentrarmi nel tributargli l’enorme merito di aver saputo riconciliare lo spettatore col suo recondito, riuscendo nella miracolosa impresa di rendere il perturbante familiare. Traghettandoci nelle Logge nere del suo cinema, Lynch ci ha spinto a volgere gli occhi verso il basso, suggerendoci di guardare la terra non più con estraneità, ma come parte di noi stessi.
*Sceneggiatore cinematografico