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David Lynch
Mi arrendo: non si può seriamente commentare la scomparsa di David Lynch. Comporre un “ricordo”, meno che mai. Le armi del critico, del cinefilo, dell’appassionato sono spuntate davanti a qualcosa più grande di lui. Non si possono certo sfidare gli studi su Lynch, non si può certificare il suo posto nella Storia del cinema, che è auto-evidente, e neanche provare a capire oggi chi è stato questo personaggio unico nella nostra formazione, perfino nella nostra vita: si rischia di diventare banali, proprio con un regista che ha fatto del sabotaggio del banale il senso del suo girare. C’è una lunga aneddotica contenuta nei libri e quindi oggi nella rete, a partire del rifiuto radicale del cinema come portatore di un messaggio, come veicolo per sviscerare questioni sociali e politiche: “Se voglio mandare un messaggio vado all’ufficio postale”, tra le sue frasi celebri. È uno di quei casi, allora, in cui il cinema diventa davvero una questione personale: ma d’altronde non è sempre così? Lynch ha segnato due generazioni, forse tre, è stato un artista totale e una figura irripetibile, non ha avuto precedenti e non troverà successori.
A ben vedere, sfogliando il suo libro dell’immagine, il regista di Missoula semina le sue ispirazioni, che si possono rintracciare con rigore filologico, spesso indicate proprio da lui: il fascino per la pittura di Francis Bacon, l’ammirazione per il noir classico hollywoodiano (rivedere Laura di Otto Preminger, che si chiama come Laura Palmer), l’eterna citazione del Mago di Oz, evidente in Cuore selvaggio e sottintesa altrove, la tradizione del freak show nell’uomo elefante, i sogni-incubi di Jean Cocteau… Ma non è questo il punto. Il nocciolo è che Lynch, nei suoi film, ha saputo riscrivere e reimmaginare, operando su alcune visioni archetipiche per costruire una costellazione nuova e personale: un linguaggio dell’inconscio del tutto originale e contemporaneo. E soprattutto – qui la svolta – nel corso del tempo Lynch ha tenacemente sgretolato il muro tra il cinema d’autore e quello commerciale: in altre parole, semplicemente, piaceva a tutti. Com’è possibile? Semplificando molto, con due armi principali: il romanticismo e l’ironia. Al contrario di quanto si pensa, David Lynch resta un regista tradizionale americano: crede nell’amore, il “power of love” è traccia ricorrenti nei racconti, per quanto perverso o malsano, il valore del cinema classico viene inglobato nel suo surrealismo. C’è Sailor che canta Love Me Tender alla sua Lula alla fine di Cuore Selvaggio , perché il tunnel dello strano e del grottesco sfocia nell’amore. Ad attestare la paradossale ascendenza classica di Lynch c’è perfino il cameo nel ruolo di John Ford in The Fabelmans di Spielberg, in cui non a caso disserta sulla linea dell’orizzonte…
E poi, sempre negli stessi racconti, interviene all’improvviso lo scetticismo dell’ironia che rende Lynch a tratti un raffinato umorista: basti a titolo di esempio la storica parte che ritaglia per sé stesso in Twin Peaks , l’agente Gordon Cole che è sordo e quindi urla, indossando le cuffiette che mettono in parodia proprio le cuffie di un regista. Più chiaro di così… Ecco perché i film di Lynch li hanno visti davvero tutti, molti li hanno amati e pochi legittimamente respinti. Perché i segni del cuore e della risata sono universali: riunire il cast di Twin Peaks venticinque anni dopo non è forse anch’esso un gigantesco atto d’amore?
È stato un pittore, disegnatore e fotografo, David Lynch. Ma è stato anche e soprattutto un regista popolare: radicalmente anti-intellettuale e anti-snob, ci ha sempre messo tutto davanti agli occhi. La cinefilia radicale, la citazione colta, lo sfoggio del “critichese” è il contrario di ciò che serve per capire Lynch. Bisogna solo guardare, solo lasciarsi andare: per lui il cinema era l’arte dell’immagine, punto e basta. Era la tempesta dei sensi, a cui abbandonarsi senza chiedere e senza provare a spiegare, perché proprio il mistero è la massima forma di rispetto per il pubblico, ciò che lo chiama all’interpretazione, lo include nell’esperienza del film. Il pubblico l’ha capito infatti l’ha visto e rivisto, adorato e consumato.
Nel cinema moderno la morte di Lynch è importante come la morte di Stanley Kubrick. Il 16 gennaio 2025 come il 7 marzo 1999. Eyes Wide Shut come INLAND EMPIRE , o come l’ultima puntata di Twin Peaks: The Return, a scelta. Tra i due c’era un noto legame sotterraneo, un non detto sempre presente, dall’ammirazione reciproca alla scelta di Eraserhead come ispirazione sensoriale per le riprese di Shining. Ma quella di Kubrick era un’altra epoca, analogica e pre-moderna, che proprio lui aveva contribuito a riversare nel contemporaneo: non c’erano i meme, non c’era la fandom online, non c’era il circo dei social. Lynch è stato diverso perché nella seconda parte della sua vita, dopo i noti capolavori, ha girato anche un “film di se stesso” con la lunga serie dei weather reports, le paradossali previsioni del tempo usate per fare e dire altro, oppure a sorpresa per enunciare davvero il meteo. La diffusione di David Lynch nel cinema contemporaneo non ha eguali, forse bisogna risalire perfino ad Andy Warhol: uno che è partito con Sleep e Kiss ed è finito su tutte le magliette. Allo stesso modo Lynch ha iniziato con i quattro minuti di Six Men Getting Sick, proiettati in loop su un muro, e poi è divenuto aggettivo.
David Lynch: la profondità di ogni domanda, l’inutilità di qualsiasi risposta. La magia di parlare a tutti e di farsi capire, nel mistero.