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© 2024 PAGE 114 - WHY NOT PRODUCTIONS - PATHÉ FILMS - FRANCE 2 CINÉMA
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Non c’è dubbio che le opinioni condivise negli anni da Karla Sofía Gascón (la protagonista di Emilia Pérez, il film di Jacques Audiard candidato a 13 premi Oscar) siano discutibili se non proprio irricevibili, decontestualizzate o meno che siano. Non la giustifica il fatto che, soprattutto quando avevamo meno consapevolezza delle conseguenze dei nostri contenuti social (e della loro sostanziale eternità), tutti abbiamo scritto cose delle quali oggi potremmo vergognarci. Scripta manent e gli screenshot non perdonano.
Tuttavia, fortunatamente, così come la sensibilità collettiva, anche le persone cambiano, evolvono, migliorano. E quindi, sì, niente vieta che l’attuale Gascón non si riconosca in quei messaggi islamofobi, razzisti, xenofobi, complottisti (prima che la chiudesse al pubblico, la sua bacheca del fu Twitter era zeppa di questa robaccia).
Questo vuol dire che vale tutto? Ovviamente no, le scuse sono sempre ben accette laddove sincere, perfino quelle piuttosto goffe di Gascón ma, insomma, non è che la signora fosse in predicato di una beatificazione (benché, ironicamente, il finale di Emilia Pérez si orienta in quella direzione). No, Gascón sta(va) semplicemente facendo campagna elettorale per un premio, il più importante del suo settore, forte di un primato (la prima attrice trans candidata a un Oscar) e di una visibilità che la stampa americana, forse, aveva concesso solo a Caitlyn Jenner.
Si era capito già al Festival di Cannes, quando la giuria presieduta da Greta Gerwig l’aveva premiata come migliore attrice insieme alle sue colleghe Selena Gomez, Adriana Paz e Zoe Saldana (fu l’unica a presenziare alla cerimonia: il battesimo come frontrunner dell’intero film): Gascón è schietta, esuberante, spericolata. Pure troppo, d’accordo: un incubo per chi ne cura la pubbliche relazioni, tant’è che anche prima dello scandalo non sono mancate gaffe e controversie (le illazioni sulla rivale Fernanda Torres).
Detto ciò, il trattamento che sta ricevendo dalla stampa americana (Variety e The Hollywood Reporter in testa, entrambe di proprietà di Jay Penske, un brillante magnate dell’editoria il cui padre, il leggendario pilota Roger, ha finanziato Trump), da varie comunità di utenti social e da quella stessa Academy (che, con una mossa tanto populista quanto puerile, ha addirittura eliminato Gascón su Instagram) che l’ha candidata è semplicemente ignobile.
Non si tratta di accettare le scuse o derubricare tutto a un equivoco: Gascón è in corsa per un riconoscimento che ne onora il lavoro, non la persona; deve essere giudicata sul piano artistico, non su quello morale. È ignobile che a scaricarla – anzi: cancellarla, letteralmente – sia proprio quel sistema che l’ha celebrata (leggi: sfruttata) per ciò che evidentemente rappresenta nell’America omotransfobica di Trump e Musk. Ed è ignobile che questo accada all’apice di un’awards season segnata dal ritorno al potere di quel presidente, quasi a testimoniare un riposizionamento ideologico di quell’industria che aveva individuato in Emilia Pérez il baluardo liberal contro il mostro della Casa Bianca.
Che Gascón possa esprimere pensieri sgradevoli se non riprovevoli dimostra invece qualcosa di davvero rivoluzionario: le persone non sono figurine monodimensionali, l’essere trans non rappresenta un condono e la realtà è sempre più complessa della sua rappresentazione.
Chi sostiene che si tratti della fine della cultura woke (termine ormai completamente svuotato del suo significato, usato come una clava dai conservatori pigri che tagliano con l’accetta la vita e tutto il resto) guarda il dito anziché la luna. Il dito è lo scandalo perfetto: il cortocircuito di una pioniera travolta da una macchina del fango orchestrata da non si capisce bene chi (all’origine della ricerca c’è una giornalista islamica, i complottisti invece accusano il team di Io sono ancora qui, la cui campagna è gestita dalla Sony).
La luna è Netflix, che una volta per tutte dimostra il motivo per cui non riesce a vincere l’Oscar più importante: non sa fare campagna elettorale. In undici edizioni, i titoli prodotti e/o distribuiti dallo streamer hanno vinto 23 premi (di rilevanti giusto due per la regia, uno per l’attrice non protagonista, due per il film internazionale) su 150 nomination, con investimenti sempre più importanti (sappiamo dei 25 milioni nel 2019, mentre il Wall Street Journal ne ipotizza addirittura 100 nel 2020, ma Netflix non ha mai confermato queste cifre). Con Emilia Pérez – che il colosso dello streaming ha pagato 12 milioni di dollari per la distribuzione americana e britannica – sembravano essersi allineati i pianeti: il grande tema, la grande narrazione, le grandi performance.
Ma possibile che nessuno si sia preoccupato di leggere i profili social (pubblici!) della protagonista del film scelto come cavallo vincente per l’assalto finale? Possibile che nessuno abbia investito qualche dollaro per intervenire su quei profili, magari ripulendoli così da preservare l’immagine immacolata dell’icona? Possibile che tutto questo emerga a poche settimane dalla votazione finale (dall’11 al 18 febbraio), con un timing chirurgico e alla fine di molti tentativi messi in atto per screditare quel film (la polemica dei messicani mal rappresentati, la controversia LGBTQ+, il tiro al piccione di Audiard additato come xenofobo, classista, colonialista o semplicemente francese…)? Possibile, insomma, che Netflix non abbia capito che il suo film più forte era nel mirino?
Facile cancellare la reproba Gascón (completamente sparita dai materiali “for your consideration”, ora tutti focalizzati su Saldana, che tutto sommato è la vera protagonista...), facile negarle il proseguimento della campagna (niente budget per lei e per l’entourage), facile rivedere la cerimonia per limitare i danni (dopo averlo annunciato, l’Academy non adotterà il sistema delle “fab five”, cioè le vincitrici del passato, che annunciano le nominate dell’edizione), facile sentirsi assolti. Chi ci guadagni non è chiaro, l’attivismo di Variety e THR desta qualche sospetto, così come la compattezza di un settore sempre pronto a correre in soccorso del vincitore. Che, in questo caso, è l’ipocrisia.