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Todd Williamson/January Images
Nelle ultime apparizioni per accompagnare il lancio di A Complete Unknown, Timothée Chalamet sfoggia baffetti definiti e capelli impomatati. Pare uscito dagli anni Cinquanta ma sono esigenze di copione: quello di Marty Supreme, il primo film in solitaria di Josh Safdie, in cui interpreta un imbroglione diventato campione di ping pong. Nonostante il look d’occasione, Chalamet è sempre riconoscibile.
Sarà che, al pari di tanti altri attori cresciuti di fronte ai nostri occhi (ha appena compiuto ventinove anni e lavora di più di quindici), ne abbiamo osservato il naturale passaggio dalla pubertà all’età adulta, peraltro sintonizzato su scelte professionali sempre intelligenti e oculate. Chalamet non ha giocato con il tempo ma ne ha assecondato il corso, raccontando l’avventura di un corpo che diventa adulto e preservando, tuttavia, quella dolce traccia diabolica in un viso angelico che continua a illudere l’anagrafe. Anche una delle ultime gag, l’arrivo sul red carpet a cavallo di una bici affittata, si allinea al carattere giocosamente brat del ragazzo.
Un po’ come capita con Leonardo DiCaprio, di cui è forse l’erede e non solo per il combinato disposto di bellezza e carisma con l’evidenza di una straordinaria presa sul pubblico (giovane in primis). Ma anche perché Chalamet, come DiCaprio, crede nel cinema e appartiene al grande schermo: a differenza di altri suoi coetanei o giù di lì che sono partiti dalle serie e infine approdati ai film, il newyorkese di padre francese ha frequentato la televisione nella prima fase della carriera, capendo subito che il divismo vero, in quanto sintomo di eccezionalità, è diverso dalla popolarità e dalla familiarità offerte da un pur memorabile racconto seriale.
Una scelta, se vogliamo, rigorosa, ma che ha permesso a Chalamet di imporsi come l’attore più rappresentativo e autorevole della sua generazione. E riconoscibile, appunto, abile com’è nel non nascondersi nel trucco (il suo Bob Dylan nel film di James Mangold ha una tridimensionalità mimetica che si eleva dalla facile imitazione, senza dimenticare l’hacker di Don’t Look Up) né nel lasciarsi cannibalizzare dai brand (da Tom Ford a Prada passando per Alexander McQueen).
L’unica deviazione è il gossip, ma anche il salto dalla love story “canonica” con la collega Lily-Rose Depp a quella più bizzarra con Kylie Jenner del clan Kardashian acuisce il carattere sfuggente di una star consapevole del proprio statuto. Una stravaganza, diciamo, in un’ascesa spettacolare e strutturata, che gli ha permesso, nell’arco di un decennio, di collocarsi stabilmente nell’immaginario.
Si è fatto icona romantica grazie a uno dei melodrammi contemporanei più amati, cioè quel Chiamami col tuo nome che, nel suo sintetizzare la storia di tutti i primi amori, ha ottenuto la prima nomination all’Oscar, l’affetto di un pubblico trasversale e la presenza capillare in un repertorio di meme strappalacrime e fanart creative.
E si è fatto eroe di un’epica sontuosa e potente, Dune (di cui si aspetta il terzo capitolo), ben diversa dalla mitologia perseguita da altri media franchise più interessati all’arricchire una library piuttosto che offrire alla fantascienza una chiave di lettura della realtà. E si è fatto testimone della poetica di un maestro, Woody Allen che, pur codardamente rinnegato per le note vicende, ha trovato nella sua immagine così svagata e affascinante, malinconica e maliziosa, il corpo ideale per Un giorno di pioggia a New York.
Dal ruolo di figlio non protagonista per definizione – dal sottovalutato Men, Women & Children, in cui si riflette su pulsioni sessuali e dipendenza dal porno, al sopravvalutato Beautiful Boy, dove la tossicodipendenza è il banco di prova del rapporto con il padre – si è preso la scena ballando e cantando nel successo Wonka, senza rinunciare a versatilità e ruoli più laterali. Pensiamo alle due prove per Greta Gerwig, tenebroso e fatale in Lady Bird e tenero e appassionato in Piccole donne, al leader sessantottino di The French Dispatch e al lacerante cannibale di Bones and All.