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Guillaume Canet, Stéphané Brizé, Alba Rohrwacher
Nel cinema di Stéphane Brizé l’ossessione è la misura di ogni cosa. Il suo è un cinema che racconta il mondo, i fatti, i conflitti privati e pubblici e lo fa attraverso i suoi e le sue interpreti: personaggi, attitudini e corpi mai domi, identità non risolte ed inquiete che si deformano e formano durante la visione in un processo in movimento.
In questo percorso di evoluzione di narrato e figure è una strana ossessione quella raccontata dal cineasta francese. Qualcosa di non concreto che s’infiltra, però, nelle ossa a tal punto da rendere le due controparti indivisibili. La persona – e il personaggio – stanno al mondo solo se mossi da una tensione di conoscenza sia dell’altro che di sé stessi. Tutto è filtrato, ad esempio, dalla prospettiva di Jeanne Le Perhius des Vauds nell’adattamento maupassantiano Une vita (2016); la vita rappresentata è la sua, l’amore-ossessione è lo strumento con cui la giovane nobildonna crede di poter ritrovare un rapporto con la (sua) realtà. La stessa che Jeanne vedrà disgregarsi in ogni sua componente sia materiale che morale proprio per quella fedeltà che l’avrebbe dovuta salvare.
Ma che cos’è la fedeltà per Jeanne? Senz’altro nulla che provenga da sé spontaneamente. Per tutta la sua vita Jeanne resta fedele non a una persona – in fin dei conti anche fare l’amore con il suo sposo era doloroso - ma a tutto un sistema di codici e norme che quell’ossessione l’avevano plasmata fin dal suo primo respiro: l’ossessione per la donna che avrebbe dovuto essere e che non è stata.
Una vita è il film-ossessione per eccellenza del cinema di Brizé in cui l’autore racconta come questo sentimento si evolve nel tempo a partire dal corpo spezzato di Jeanne/Judith Chemla; non per caso è il primo film dell’autore francese in cui già prende forma quell’esigenza di co-creazione artistica insieme al corpo dell’attore/attrice. Fino alla fine Jeanne proietta sé stessa là dove non è e non sarà mai un po’ come la protagonista femminile di Le occasioni dell’amore (2023) il cui desiderio resta silente fino all’arrivo di una persona che in un modo o nell’altro lo risveglia.
L’incontro tra i due ex amanti Alice/Alba Rohrwacher e Mathieu/Guillaume Canet avviene dopo quindici anni e nonostante lo sguardo - lo sguardo solo superficiale – di Brizé si posi solo sulla fisiognomica di Mathieu, sembra esserci sempre qualcosa nel fuori-campo. Il personaggio di Alice irrompe in scena dopo mezz’ora dall’inizio del film ma è come se ne avesse abitato ogni piano sequenza e inquadratura fin dalle prime battute, portando sia lei che Mathieu a esplorare melanconicamente una crisi che forse, senza la presenza dell’uno e dell’altro insieme, non si sarebbe mai manifestata.
Sia in Le occasioni dell’amore che in Una vita Brizé è abilissimo a delineare i contorni di un contrappunto estremo tra spazialità e sentimenti in cui l’ambiente lo stato d’animo dei personaggi. In modo diverso ma ugualmente significativo il grigiore e le colorazioni opache della fotografia dominano l’ecosistema post-industriale della trilogia di film sul lavoro, dove è impossibile pensarsi al di là dei vani degli uffici e della sostanziale indifferenza che li abita.
La relazione tra le logiche del tardo-capitalismo e il collasso dell’umano (e dell’uomo) sono esplorati da Brizé in La legge del mercato (2015) In guerra (2018) e Un altro mondo (2021) a partire dal corpo di Vincent Lindon che incarna un anti-archetipo diverso in ogni film. L’ossessione è qui carica della forza sovversiva di un desiderio che non si piega e che resta solido e fermo anche a costo del proprio sostentamento economico o della propria vita, come ci dimostra il rogo finale di In guerra. Se il capitale affonda le sue radici storiche nella violenza estrema, nel furto e nella reciproca sopraffazione, Brizé racconta uno stato di cose che nient’altro è che l’accettazione di questi meccanismi.
Da questo punto di vista, la riflessione di Stéphane Brizé sul lavoro nel contesto del capitalismo contemporaneo risulta ancora più tagliente e incisiva rispetto al cinema militante, ad esempio, di Jean-Pierre e Luc Dardenne o di Ken Loach: da un lato c’è la vivisezione del sopruso dal punto di vista emotivo e fisico della categoria oppressa; dall’altro, invece, lo stile di Brizé è molto più cruento e feroce perché riguarda il racconto di una violenza diversa: una violenza invisibile e di cui non è possibile individuare i confini perché invasiva e totalizzante.
Al di là del manicheismo con cui è stato accolto, ad esempio, La legge del mercato, chi accusando il regista di rafforzare i luoghi comuni sulle classi subalterne, chi, invece, di eccessiva prudenza nel discorso sulla disparità di classe, questo è il cinema che più si posiziona politicamente al giorno d’oggi – ed è evidente in che modo e con quale pensiero critico. Il corpo usurato dalla stanchezza di Vincent Lindon indica, infatti, che non c’è possibilità di salvezza né spazio o tempo per una catarsi nel suo micro-realismo capitalista fatto di compromessi e menzogne accolte.
In ogni film, il corpo di Lindon è uno specchio diverso del medesimo vuoto politico e sociale creatosi attorno all’individualismo e all’indifferenza attuali, i sentimenti che a Brizé interessa catturare. Lindon c’è e la sua presenza non è mai invadente, pulendo la sua recitazione fino all’estremo, diventando esso stesso, alla fine, parte di quella massa sopraffatta dalla violenza quotidiana. Per questa ragione, la “misura” dell’uomo, la sua ossessione o, meglio, le sue pratiche di resistenza esistono e acquisiscono importanza solo se si soccombe. Se si dichiara con il proprio corpo e le proprie scelte di voler vivere in un mondo diverso.