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Alberto Sordi in Il maestro di Vigevano
Totò e i re di Roma di Steno e Mario Monicelli (1952)
La cosa grossa di questa paradossale e cupa rivisitazione cecoviana è lo slittamento del tipico ruolo comico del Principe, da dominante a sottomesso. Sordi, trentaduenne star radiofonica, è “solo” un ingombrante caratterista: lo spietato esaminatore, quintessenza cinica e perfida del potere democristiano, maestro elementare acido, vile, vendicativo e sempre compagnuccio della parrocchietta. Con la fame del commediante di razza desideroso di occupare la scena, Sordi azzanna Totò, ne urta la sensibilità, lo fa impazzire, lo provoca fino all’esaurimento: un incontro-scontro incredibile.
Via Padova, 46 di Giorgio Bianchi (1946)
Riscoperto qualche anno fa dopo mezzo secolo di oblio e ancora oggi sottovalutata, è una curiosa commedia paranoica sul tradizionale canovaccio “rocambolesche avventure di un marito in fuga dalla routine coniugale”, con qualche venatura di black comedy britannica. Peppino De Filippo non manca l’appuntamento (raro) con il ruolo da protagonista, ma la sua pacatezza piccolo-borghese è sconvolta dalla petulante invadenza di Sordi, ancora relegato al ruolo di caratterista ma pronto a dilagare. Poco visto, fu rieditato senza fortuna col titolo Lo scocciatore dopo il successo del divo romano.
Bravissimo di Luigi Filippo D’Amico (1955)
Mettete insieme È nata una stella e Vi parla Alberto Sordi, il programma radiofonico che ha reso popolare l’attore, e avrete questo perfetto esempio delle capacità istrioniche e funamboliche del mattatore degli anni Cinquanta. Una storia in bilico tra umorismo e cinismo, con un logorroico e insopportabile maestrino cialtrone che scopre il talento canterino di un bambino. Pigmalione senza qualità, quasi un presagio del mercante di bambini del Giudizio universale, ha un’immagine debitrice alle riviste satiriche, con quel pizzetto posticcio e l’occhialetto vezzoso che lo rendono un pomposo e anacronistico residuato di un’Italia nostalgica (in senso negativo).
Domenica è sempre domenica di Camillo Mastrocinque (1958)
Industriale trombone con la passione delle canzonette, con un repertorio di smorfie e lazzi tra il narcisismo dei mediocri di successo e la schizofrenia dei frustrati abituati a vincere sempre, è già un teledipendente. E vuole partecipare al Musichiere, quindi chiede la raccomandazione dell’ex commilitone Achille Togliani (che guarda con la tensione omoerotica dei provinciali suggestionati dai divi), si fa travolgere dall’emozione quando incontra le star, canta con spudoratezza naif: un personaggio modernissimo, autocompiaciuto, ossessionato della popolarità, dei follower, dei big likes.
Il commissario di Luigi Comencini (1962)
Uno dei personaggi sordiani più scivolosi: ambizioso senza scaltrezza, zelante e disadattato, anonimo “common man” ma con i capelli sparati. Girato come un giallo, scandaglia i vizi privati dell’Italia godereccia e ipocrita del boom economico e svela la dimensione più patetica della maschera grottesca dell’attore: con quanta intelligenza cesella il ritratto di un loser desideroso di emanciparsi per spiccare il volo e invece costretto quasi “per natura” a soccombere. Una delle commedie all’italiana più segrete, audaci, pessimiste, feroci degli anni Sessanta.
Il maestro di Vigevano di Elio Petri (1963)
Come ne Il boom, Sordi si proclama corpo del disagio verso le sollecitazioni del miracolo economico. E anche qui il matrimonio è il banco di prova di una storia sulle conseguenze dell’ambizione. Una delle occasioni più straordinarie per capire quanto l’attore sapesse intercettare i piccoli squallori quotidiani piccolo-borghesi. Ed è strepitoso in un racconto nero di cui Petri – il cui lato più iconoclasta si scorge nel frangente onirico di un delirio agreste – non era del tutto soddisfatto. Ma resta uno dei più feroci e precisi affreschi provinciali del nostro cinema.
Latin Lover (episodio di I tre volti) di Franco Indovina (1965)
Dino De Laurentiis voleva trasformare in attrice Soraya, appena ripudiata dello Scià di Persia. La catapultò in un progetto che prevedeva l’impegno di Fellini, Bresson, Welles, Visconti, Bergman. Alla fine restò Antonioni e si aggiunsero Bolognini e Indovina. È lui (che poi si legò all’ex reale) a dirigere il terzo episodio, con Sordi gigolò (mai esplicitato): inattendibile, velleitario e un po’ ridicolo, soffre perché non riesce a suscitare l’interesse della cliente. Che però, con un colpo di coda da vera borghese, asseconda il bisogno del maschio con una fake news. Spettacolare il saluto finale, che rivela tutto il familismo di Sordi.
La camera (episodio di Le coppie) di Alberto Sordi (1970)
Scritto da Rodolfo Sonego, è il miglior film diretto da Sordi: secco e lucido, in bilico tra populismo e sovversione, annunciato da un incipit documentaristico che cattura la dimensione vacanziera degli italiani a cavallo tra le illusioni del boom e il presagio degli anni più cupi. Una riflessione sul classismo attraverso una storia semplice nella sua lineare follia, ferocemente antiborghese pur nella forma di un cinema accessibile e pop. Come marito burino Sordi sguazzava: si ripeté con Rossana Di Lorenzo ne Il comune senso del pudore e con Anna Longhi in Dove vai in vacanza?.
L’ingorgo di Luigi Comencini (1979)
Ispirato non dichiaratamente a un racconto di Julio Cortázar, è uno di quei film-ufo che compaiono al momento sbagliato per poi rivelarsi davvero col senno di poi, proprio in funzione di parafrasi e interpretazione di un’epoca. Incubo spettrale, sul baratro tra vita e morte, in cui Sordi è un imprenditore che si fa chiamare “l’avvocato” e di cognome fa De Benedetti: accompagnato da un servo in giacca e cravatta, ha il cuore socialista e il portafogli a destra, beve champagne nell’attesa di un elicottero, sfrutta i poveracci: personaggio ignobile, che naturalmente Sordi rende al meglio.
Romanzo di un giovane povero di Ettore Scola (1995)
Penultimo film del mattatore, ne celebra il lato oscuro (Piccola posta, Il vedovo, Un borghese piccolo piccolo, La più bella serata della mia vita sempre di Scola): un vecchiaccio che chiede a un giovane disoccupato di uccidere l’ingombrante moglie per poter vivere un’improbabile storia d’amore con una pizzicagnola. Film minimalista, dalle ambizioni “francesi”, mostra un’evidenza: se l’anziano Sordi avesse scelto di farsi dirigere da altri (bravi) e non da se stesso avrebbe fatto il bene suo e il nostro. Guardate l’interrogatorio in cui si tira fuori dal piano: che complessità, che stratificazione, che capacità di penetrare le meschinità umane.