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Il regista Stefano Sollima - Foto Emanuele Scarpa
"Gli esseri umani non incarnano mai solamente il bene o il male, sono pieni di sfumature. Da sempre cerco di trovare elementi che possano essere spiazzanti ma che sommati finiscono per descrivere i vari personaggi. Mi viene naturale non giudicarli mai, ma amarli a prescindere da quello che sono".
Stefano Sollima fa il suo esordio in concorso alla Mostra di Venezia con Adagio, film prodotto da The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle, Vision Distribution, Alterego, in collaborazione con Sky, in collaborazione con Netflix, che sarà nelle sale dal 14 dicembre con Vision Distribution.
Scritto dal regista insieme a Stefano Bises, Adagio racconta la storia di Manuel (Gianmarco Franchini), sedicenne che cerca di godersi la vita come può, mentre si prende cura dell’anziano padre (Toni Servillo). Vittima di un ricatto, va a una festa per scattare alcune foto ad un misterioso individuo ma, sentendosi raggirato, decide di scappare, ritrovandosi invischiato in questioni ben oltre la sua portata. I ricattatori - capeggiati da Adriano Giannini - che lo inseguono si rivelano essere estremamente pericolosi e determinati ad eliminare quello che ritengono uno scomodo testimone e il ragazzo dovrà chiedere protezione a due ex-criminali (Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino), vecchie conoscenze del padre.
La città di Roma - colta nella morsa di un caldo infernale, "interrotta" da continui blackout, letteralmente bruciata da incendi all'orizzonte - torna ad ospitare un film del regista di Romanzo criminale - La serie, A.C.A.B. e Suburra: "Questa volta volevo cogliere la città da un punto di vista cinematografico sfruttato meno, le sue strade piuttosto che i suoi quartieri storici, una città come le altre in fondo, dove la gente è in continuo movimento. E gli elementi apparente distopici, come gli incendi, i blackout, assumono una funzione drammaturgica per raccontare l'ultima notte di queste tre vecchie leggende criminali".
Daytona (Servillo), Pol Niumànn (Mastandrea), Romeo detto er cammello (Favino) sono come dei fantasmi, dei non morti, che cercano di aggrapparsi alla vita prima che sia troppo tardi: "Adagio è come se fosse un noir sentimentale, intimo, in cui lo sfondo è la situazione criminale ma anche il rapporto padre-figlio. C'è un momento in cui tutto passa per il rapporto che è semplicemente umano, non dettato dal denaro. La partenza da gangster movie - governato dal denaro che distrugge ogni cosa - poco a poco si trasforma in qualcosa d'altro, arrivando ad un certo punto ad un semplice patto d'amore in cui in cambio non si chiede e non si avrà niente", dice ancora il regista.
Che ritrova ancora una volta Pierfrancesco Favino - dopo A.C.A.B. e Suburra - tra i protagonisti di un suo film: "Sono molto contento del percorso fatto con Stefano, regista unico nel panorama del nostro cinema intanto perché riesce a lasciare spazi per gli attori abbastanza inusuali, sia fisici che di creazione. E durante la lavorazione mi sono reso conto che questo film sia importante sì dal punto di vista emotivo, il culmine di un percorso diciamo, ma anche per quello che riguarda un'economia diversa dal punto di vista tecnico. Nel suo cinema non c'è mai un'idea preconcetta di bene o male, non c'è quel moralismo che si impone ogni volta nel cercare una redenzione: questi uomini che noi interpretiamo, un tempo padroni della città, vengono quasi raccolti nella polvere, giustamente dimenticati, ognuno che si arrabbatta come può a portare avanti quel poco che gli rimane, e quando vengono richiamati alle armi, diciamo così, sentono una specie di scintilla di giovinezza che poi se li porta via".
Per la prima volta in un film di Sollima, invece, Adriano Giannini (a parte corto-spot per Campari del 2018), Toni Servillo e Valerio Mastandrea: "Il mio personaggio l'ho costruito insieme al regista. Dovevo anche compiere una specie di trasformazione fisica, nella postura, per incarnare questo uomo che da una parte cerca di accudire i propri figli con la massima cura, dall'altra non si ferma di fronte a nulla per arrivare al suo obiettivo. Ma come una palla di neve che poco a poco diventa una valanga, si trova in una situazione che si fa incontrollabile: alla fine - dice ancora Giannini - la cosa interessante del film è anche questo saper mescolare i codici della criminalità insieme a quelli di chi la criminalità dovrebbe combatterla".
Per Toni Servillo, il suo "Daytona è un personaggio che recita nella recita, un uomo che capisce che certe regole coincidono con un destino contro il quale va a sbattere. E prima di andare a sbattere contro questa fine tragica se la gioca, fino all'ultimo. Da giovani lui e i suoi compari erano dei balordi, interpretavano la libertà come un campo dove muoversi e fare quello che gli pareva".
Secondo Valerio Mastandrea, poi, "Sollima sospende lo stato di diritto quando gira un film, suo e della vita degli altri", dice scherzando l'attore a proposito della prolungata e meticolosa lavorazione sul set, per poi aggiungere: "Quando il regista mi ha mostrato il soggetto, ho pensato che fosse un film che mi sarebbe piaciuto vedere. Non avevo capito che mi chiedeva di parteciparvi. Non mi sentivo adatto ma poi mi sono fatto convincere dal personaggio. Credo però che il lavoro fatto da Adriano Giannini sia stato incredibile, interpreta un personaggio meraviglioso e mi ha davvero impressionato".
Grande cast che ruota intorno però al giovane protagonista, l'esordiente Gianmarco Franchini: "Non ero intimidito, più che altro sentivo l'adrenalina di ritrovarmi in una cosa simile, mi è piaciuto. Come interpretare un personaggio in fuga, da piccolo quando giocavamo a guardie e ladri facevo sempre il ladro perché dovevo correre di più", racconta sorridendo il ragazzo.
Nelle mani del quale Sollima mette non solo i destini di un personaggio di finzione, ma anche una convinzione: "Lo spiraglio di luce rappresentato dai giovani. Raccontiamo un mondo di vecchi, avidi, che si muovono solo per l'avidità, senza alcuna morale, contrapponendoli ad una generazione che con la sua fluidità, purezza e innocenza deve tenere viva la speranza per un mondo nuovo", spiega il regista, che poi torna a parlare del desiderio di girare nuovamente a Roma: "Dopo le esperienze all'estero volevo girare nuovamente un film nella mia città e ho immaginato questo racconto crepuscolare, un noir ma con forte componente emotiva. A cose finite mi sono accorto di aver chiuso un cerchio, iniziato con la serie di Romanzo criminale e proseguito con A.C.A.B. e Suburra: non è la chiusura della mia carriera ma la chiusura di un'idea su Roma vista e traslata in chiave criminale".
Un film dunque, Adagio, che nasce da un'idea a suo modo "sentimentale". A Hollywood, dove Sollima ha realizzato Soldado e Senza rimorso, funziona allo stesso modo? "A Hollywood non ti inibiscono il sentimento, semplicemente lì i film nascono da un presupposto diverso, da una necessità industriale, quindi economica. E quando invece partono da un'ispirazione pura devono compiere un percorso difficile per adattarsi all'esigenza industriale".
Esigenza industriale che alcune volte porta alla realizzazione di opere, come House of Gucci di Ridley Scott e il recente Ferrari di Michael Mann, incentrate su celebri figure del nostro paese ma interpretate da star hollywoodiane: "Se è appropriazione culturale quella di un americano che interpreta un cubano allora lo è pure quella di un americano che interpreta un italiano, come avviene ad esempio in House of Gucci o Ferrari", dice Pierfrancesco Favino, che aggiunge: "Questi film non potevano essere interpretati da attori italiani? Un tempo Ferrari l’avrebbe interpretato Gassman. C'è un atteggiamento di disprezzo nei confronti di noi stessi, stiamo lasciando che quel cliché dell'italianità rimanga tale per cui se ti offrono il ruolo poi devi recitare in un inglese maccheronico che rimarchi l'accento macchiettistico. Film come questo di Sollima ci devono ricordare che dobbiamo una volta di più fare sistema".