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Silvio Berlusconi (Webphoto)
Finisce davvero un’epoca, con la morte di Silvio Berlusconi, scomparso oggi a 86 anni. Perché è difficile raccontare l’Italia degli ultimi cinquant’anni senza tenere conto del suo impatto, della sua influenza, della sua centralità nella cultura popolare. Imprenditore più che controverso, facoltoso magnate, editore “liberale”, politico molto amato e profondamente odiato.
Berlusconi è stato ovunque: ha sconquassato la televisione, rompendo il monopolio del servizio pubblico; ha dato il via a una nuova stagione nel calcio, acquistando una squadra allora appannata come il Milan che poi è diventata tra le più forti del secolo; ha rivoluzionato la politica, “scendendo in campo” con un partito-azienda di cui è stato leader fino alla fine e che ha impostato il bipolarismo (imperfetto) nel nostro Paese.
Nessuno come Berlusconi è stato tanto ammirato dai suoi seguaci, che l’hanno visto come un modello da imitare, quanto disprezzato dagli oppositori che lo consideravano il simbolo della decadenza culturale di un’intera nazione.
Figura totalmente mediatica e protagonista di tutte le cronache (giudiziaria per le note vicende, rosa per gli aspetti privati, finanziaria e politica per evidenti motivi), Berlusconi ha penetrato se non talvolta plasmato l’immaginario audiovisivo: è incredibile (anzi: ovvio) che non esista un biopic su Berlusconi, uno che ha anticipato la moda dello storytelling decidendo lui stesso quale tipo di autonarrazione veicolare (pensiamo alla pubblicazione Una storia italiana, inviata a tutti i cittadini). Ma cinema e serialità l’hanno citato, parodiato, ricreato, ripensato, ridotto a maschera e simbolo. E raccontato quello che Gian Piero Alloisio (citato da Giorgio Gaber) definiva il “Berlusconi in me”.
Ginger e Fred (Federico Fellini, 1986)
Federico Fellini è stato il primo, grande nemico di Berlusconi: fu il maestro, negli anni Ottanta, a coniare lo slogan “Non si interrompe un’emozione”, contro l’usanza delle tv private di infarcire i film con le pubblicità. Ed è proprio lui a citarlo in questa commedia malinconica, in cui una vecchia coppia di ballerini (i feticci Marcello Mastroianni e Giulietta Masina) partecipa a una serata nostalgica trasmessa dall’emittente commerciale del cavaliere Fulvio Lombardoni, chiaramente ispirato a Berlusconi. Fellini torna ad attaccare “poeticamente” il magnate nel suo commiato, La voce della Luna, che tra le altre cose è anche una satira sulla volgarità del berlusconismo. Curiosità: il Villaggio del congedo felliniano, già star dei varietà commerciali (Risatissima e Grand Hotel), incontra Berlusconi nel penultimo Fantozzi, Il ritorno: il Cavaliere appare nel finale paradisiaco, come angelo che porta in dote una pausa pubblicitaria per l’eternità.
Splendor (Ettore Scola, 1988)
Altro acerrimo rivale cinematografico fu Ettore Scola. In Splendor, amara trenodia all’esperienza del cinema in sala, un romantico esercente (curiosamente ancora Mastroianni), travolto dai debiti e dal progressivo calo degli spettatori, si vede costretto a vendere la sala al signorotto del paese. Che si chiama cavalier Lusconi. Scola non mancava di ricordare che si era “pensionato” anzitempo proprio a causa di Berlusconi: stizzito dal fatto che il tycoon si dichiarasse “liberale” perché, attraverso Medusa, produceva “un film del comunista Scola”, il regista ruppe il contratto.
Tre colonne in cronaca (Carlo Vanzina, 1989)
Dalla cronaca al cinema, Berlusconi è indirettamente al centro dell’adattamento dell’omonimo libro di Corrado Augias e Daniela Pasti, che romanza la cosiddetta “guerra di Segrate” per il controllo della Mondadori, una vicenda complicata e controversa che portò l’uomo di Arcore al comando del gruppo editoriale. Tra i film meno noti e più curiosi di Carlo Vanzina, un giallo intricato che annusa l’aria (da un regista che come pochi ha fotografato gli anni Ottanta berlusconiani nell’euforia della Milano da bere, Yuppies e Via Montenapoleone in primis) e colloca al centro Gian Maria Volontè come avatar di Eugenio Scalfari
Assolto per aver commesso il fatto (Alberto Sordi, 1991)
Forse il peggior film di e con Alberto Sordi, ma che nelle intenzioni di Rodolfo Sonego avrebbe dovuto essere una satira sui self-made men e un monito per gli spettatori. Ufficialmente il riferimento per il personaggio di Sordi è Giancarlo Parretti detto “il leone di Orvieto”, spregiudicato finanziere che riuscì a conquistare una serie di aziende fino ad arrivare, addirittura, al colosso MGM, ma il vero bersaglio è Luigi Serra, un capitalista rampante alla conquista del Paese dietro cui si cela la silhouette di Berlusconi: è il 1991 ma, nonostante gli esiti mediocri, c’è una notevole capacità di intercettare l’aria del tempo.
Bye Bye Berlusconi! (Jan Henrik Stahlberg, 2005)
Satira low cost di produzione tedesca la cui eco si sente in Italia nel momento di massimi fermenti antiberlusconiani. Si sente, perché non si vede (perlomeno non legalmente): Massimo Ferrero ne acquista i diritti ma non l’ha mai distribuito. A dare corpo al presidente, il suo sosia ufficiale, il commerciante romano Maurizio Antonini, ma la paura delle querele impone la scelta di pseudonimi, tutte storpiature del mondo Disney, con il fantoccio di Berlusconi che diventa Miky Laus, imprenditore nel settore delle angurie. Sono anni caldi per la militanza contro l’allora potentissimo premier: nel 2005 Sabina Guzzanti si scatena con Viva Zapatero! sulle ingerenze nella Rai (la sospensione del suo Raiot nonostante gli ottimi ascolti, l’editto bulgaro contro Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, l’informazione al guinzaglio del potere); nel 2006 esce Shooting Silvio su un giovane che vuole rapire e uccidere l’allora premier; nel 2008 arriva la commedia nera Ho ammazzato Berlusconi; nel 2009 è la volta del doc svedese Videocracy, analisi del potere politico del premier attraverso il suo impero televisivo. Colpi di coda: Silvio Forever di Roberto Faenza e Filippo Macelloni (2011), tra memorie e omissis, e il militante S.B. – Io lo conoscevo bene di Giacomo Durzi e Giovanni Fasanella (2012).
Il caimano (Nanni Moretti, 2006)
Rivisto a diciassette anni di distanza, ne guadagna: svincolato dall’attualità (uscì poche settimane prima delle elezioni poi vinte da Romano Prodi, scatenando mille polemiche) e dall’obbligo della militanza (alla morte di Fellini, Nanni Moretti fu il grande nemico di Berlusconi: dal “cannone” di Aprile ai girotondi), è un film liberissimo e straordinario che attraverso la vicenda personale di un produttore in crisi (nonché elettore di Forza Italia) traccia un affresco su una società disillusa di fronte alle promesse di felicità del leader e schiacciata dagli interessi personali del presidente, e che comunque ostinatamente crede ancora che il cinema (l’arte) possa cambiare le cose. Berlusconi è trino: imitazione stilizzata per evocare l’ambiguità delle origini (Elio De Capitani), maschera gigiona per mettere in scena la scaltrezza e la bulimia (Michele Placido), allegoria straniante per svelarne la nocività (Nanni Moretti).
N. – Io e Napoleone (Paolo Virzì, 2006)
Se Ferie d’agosto è il ritratto tuttora più centrato dell’Italia risvegliatasi berlusconiana (e antiberlusconiana: chissà cosa vedremo nell’imminente sequel...) e Caterina va in città funziona da termometro per osservare un Paese completamente dominato dal Cavaliere, è con l'adattamento del romanzo Premio Strega di Ernesto Ferrero che Virzì prende di petto il “tiranno”. Il Napoleone esiliato parafrasa Berlusconi: il populismo, il sorriso smagliante, il trucco agli occhi come un antico lifting, il dongiovannismo da cumenda, la seduzione degli avversari, un “nuovo miracolo italiano”, irrituale “mi consenta”. Emblematico che chi vuole ucciderlo, infine, si ritrova incapace di portare a termine l’impresa. Sarebbe riduttivo definire questo film sul potere, tragico e ridicolo, definirlo una metafora su Berlusconi e sul berlusconismo, ma nell’Italia polarizzata del 2006 è inevitabile leggerlo anche così.
Belluscone. Una storia siciliana (Franco Maresco, 2014)
Uno dei film italiani più rivoluzionari dell’ultimo decennio ha al centro proprio Berlusconi: a partire dalle ricerche (poi abbandonate) per documentare la sua collusione mafiosa, tra finanziamenti e amicizie siciliane, Maresco costruisce un’inclassificabile indagine sul fare-cinema e sul fallimento che, paradossalmente, scopre molto di più del suo soggetto nel momento in cui guarda nel sottobosco della cultura berlusconiana (incarnata dall’impresario Ciccio Mira). Scriveva Valerio Sammarco: “Una presa di coscienza liberatoria e al tempo stesso dolorosa, che riesce dopo ore di silenzi e divagazioni a strappare qualche confessione al senatore Dell'Utri, simbolicamente adagiato su un trono... Poi succede qualcosa, un intoppo tra microfono e registratore, forse un errore umano. Fatto sta che quello che aggiunge Dell'Utri è perso per sempre. O forse no”.
My Way (Antongiulio Panizzi, 2016)
In un momento di grande difficoltà (la condanna per frode fiscale, la decadenza da senatore, l’affidamento ai servizi sociali) e prima di un’ennesima resurrezione, si concede ad Alan Friedman prima in un libro e poi in un documentario per Prime Video. Il titolo è sontuoso, ma sotto il vestito c’è poco: Friedman incalza ostentando la formazione americana, Berlusconi tergiversa ben conoscendo la forza delle immagini, il braccio di ferro tra chi deve condurre la narrazione finisce in un pareggio in cui l’uno concede qualcosa all’altro senza mai colpire nel segno. L’ambizione si fa velleità: di Berlusconi sappiamo tutto, di Berlusconi non sappiamo niente.
Loro (Paolo Sorrentino, 2018)
Il film maledetto di Paolo Sorrentino, forse l’oggetto audiovisivo che più di tutti è entrato nell’evidenza dell’enigma berlusconiano, andando dietro la maschera grottesca di un re sempre bisognoso di divertirsi per sconfiggere la noia: il travestimento da odalisca, lo sdoppiamento nel socio Ennio, la telefonata in cui si finge venditore napoletano, le canzoni per allietare i convenuti compiacenti (e per compiacere se stesso), le serate viziose con la speranza di spingere la notte più in là. Al crocevia di un altro divo, Sorrentino trova il cuore nero del suo cinema: la paura della morte, l’ossessione della vecchiaia, l’inesorabilità del tempo che passa, l’amore che finisce. Non è un caso che sia praticamente sparito dalla circolazione.
1994 (Giuseppe Gagliardi, Claudio Noce, 2019)
In 1992 è un’apparizione (si vedono solo i piedi mentre è al bagno), in 1993 si palesa, in 1994 domina. Paolo Pierobon al massimo: poggiato sulla mimesi fisica, elude l’imitazione e abbraccia l’interpretazione, scandagliando l’estro di un aspirante visionario e le miserie di un miliardario capriccioso. Nella saga ideata da Stefano Accorsi, ritaglio nero di storia patria tra Tangentopoli e la vittoria di Forza Italia, Berlusconi è il vero dominus attorno al quale gira ogni cosa: il desiderio di emularlo, il bisogno di compiacerlo, l’impossibilità di fregarlo. Recuperate il magnifico quinto episodio, tra gli apici della serialità italiana, in cui, nell’arco di una giornata estiva in Sardegna, Berlusconi si configura come un titanico personaggio da noir.