Quando muore un maestro ci affrettiamo a ricordare, ad elencare quei titoli, quei film che hanno segnato tanto la sua carriera quanto la nostra storia di spettatori.

Se a morire è David Lynch il discorso cambia, però. Perché è un evento che ci costringe a ricalibrare l'obiettivo sul senso ultimo, e purissimo, della visione cinematografica, a riconsiderare il concetto di "bellezza" dell'opera d'arte, che per sua natura dovrebbe non semplicemente suscitare "piacere" ma invitare allo stupore, al turbamento, obbligare l'occhio, la mente e il cuore a lasciarsi sopraffare dall'abisso dell'ignoto, dell'imprevisto, dell'inspiegabile.

Ecco, se a morire è David Lynch dovremmo brutalmente interrogarci anche sulle nostre colpe di spettatori "pigri", arresi alla banalità del "bello", dove ogni cosa è esattamente nel posto in cui deve essere, dove tutto è tristemente calcolato, spiegato, servito su un piatto d'argento affinché un attimo dopo possiamo postare le nostre "reaction" su un social o dove riteniamo più opportuno, meccanismo che forse anche noi abbiamo contribuito ad alimentare.

Meccanismo che ha fatto sì che il suo ultimo lungometraggio sia ormai di quasi 20 anni fa (INLAND EMPIRE) e che ci ha fatto intendere come quasi un miracolo l'arrivo della terza, meravigliosa stagione di Twin Peaks, anche quella comunque datata 2017.

David Lynch non lo finanziava più nessuno semplicemente perché le sue opere non avrebbero mai potuto rispondere agli attuali standard di un'industria, di un mercato dove la sublimazione ultima è da ricercarsi nelle logiche algoritmiche capaci di generare "successi".

Ma è una strada perduta dalla quale non si potrà più tornare indietro.

Dick Laurent è morto. E anche David Lynch.

Silencio