La macchina da presa rende liberi. Sembra questo il messaggio che il regista iraniano Mohammad Rasoulof trasmette al suo pubblico. Da meno di un anno è esule dal suo Paese, per poter continuare a dar voce alla protesta di quanti in Iran sono oppressi dal giogo del regime. Il divieto di girare film e le immagini rubate sono il cuore dei lavori che lo hanno unito alla sorte di altri colleghi come Jafar Panahi, con l’accusa di propaganda antigovernativa.

Dentro e fuori dal carcere, con il passaporto sistematicamente ritirato ogni volta che doveva andare a un Festival, Rasoulof ha conosciuto l’isolamento nella prigione di Evian, proprio come un detenuto politico. In Il seme del fico sacro le immagini girate con la cinepresa (illegali se non si ha l’autorizzazione) si alternano con quelle realizzate con i telefonini di chi ha vissuto le proteste di piazza.

L’incontro con chi lavora per la classe dirigente (poliziotti, giudici, censori) ha portato Rasoulof a un dilemma intimista: come può l’essere umano trasformarsi in un barbaro per eseguire degli ordini? Così il tormento di uno degli aguzzini è diventato lo spunto per la sceneggiatura di Il seme del fico sacro, realizzatoin segreto, chiuso in una stanza. Nelle sue storie a scontrarsi sono la quotidianità e il ruolo da proteggere nel tessuto sociale dell’Iran. È proprio come in Il male non esiste, dove la pena di morte era tragicamente protagonista. La violenza era doppia. Da una parte l’imposizione, il sangue, dall’altra il desiderio represso di ribellarsi. Per poi arrivare alle responsabilità, al non poter prendere sonno per il senso di colpa.

Cedere o levare la voce contro l’ingiustizia? È il dilemma che si deve affrontare in Lerd (A Man of Integrity) del 2017. Qualsiasi strada si voglia percorrere, a trasparire è un profondo senso di solitudine. Rasoulof mostra come il potere centrale allunghi i suoi tentacoli fino alle regioni più remote del Paese, e a quel punto resta solo la clandestinità. Così si sono svolte le riprese di Good Bye del 2011 e di Dastneveštehā nemi-sōzand (letteralmente “I manoscritti non bruciano") del 2013, il cui titolo è una citazione da Il maestro e Margherita di Bulgakov.

Good Bye è la storia di una giovane avvocata a cui è stato tolto il diritto di esercitare. Vive lontana dal marito, un dissidente, e vuole ottenere il visto per l’espatrio. Ma a un certo punto scopre che sta per diventare madre. È il dramma di chi si sente straniero nella propria terra, che non sa più dove andare. Dastneveštehā nemi-sōzand prende invece spunto da una catena di omicidi di oppositori politici avvenuta in Iran tra il 1988 e il 1998. Il colpevole è uno solo: lo Stato.

È un cinema senza timori quello di Rasoulof, che non ha perso la speranza di poter un giorno tornare in patria da uomo libero. L’invito è a mantenere gli occhi aperti e le coscienze accese, in attesa di una nuova alba.