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© 2024 Paramount Pictures.
Paul Mescal non ha profili social ma basta fare un giro su Instagram o X per scoprire una marea di pagine piene di post adoranti. La scelta è motivata: “Mi interessa molto ciò che la gente pensa di me – ha spiegato in un’intervista – e la voce più forte nella stanza per me è spesso la più negativa. Questo sicuramente non aiuta il mio lavoro o la mia vita”.
È un ritiro piuttosto comune tra le star della Gen-Z (la pausa di riflessione, ora conclusa, di Tom Holland, 65 milioni di follower su Instagram) che d’altro canto pullula di nativi digitali che usano abilmente i social, chi giocando con l’immagine fatale (Sydney Sweeney, quasi 23 milioni, non è solo un oggetto del desiderio ma una donna consapevole del proprio corpo) e chi ricordandoci che c’è un ragazzo dietro il divo (Timothée Chalamet, 19 milioni, alterna foto da copertina e squarci di normalità ironica).
Ammettendo l’impatto dell’opinione altrui, Mescal fa un’operazione improntata all’onestà che peraltro si riverbera in altre confessioni. Nel parlare degli allenamenti sostenuti per Il gladiatore II, Mescal era convinto della necessità di farsi più muscoloso (“Non è un film di supereroi, devi essere forte perché ha senso per il personaggio”), si è detto divertito dal lavoro con il personal trainer (“Mi girava intorno come uno squalo, sta cominciando a crearmi dipendenza”) ma anche fermo (“Sono stato costretto a mangiare pollo e sollevare cose pesanti. Ho fatto tutto ciò che mi ha chiesto ma mi piace bere e mi piace fumare: non ero disposto a rinunciarci”) e schietto (“Credo che ogni volta che qualcuno dice che consuma 7.000 calorie al giorno in realtà stia mentendo”).
È un atteggiamento insolito, se non inedito, per un attore che sta lanciando quello che dovrebbe essere il film della consacrazione definitiva, ma conferma la singolarità di Mescal, che a ventotto anni è uno degli attori più importanti della sua generazione. Che sull’onestà – quanti sono gli attori disposti ad ammettere i propri piaceri senza perdere credibilità? – ha edificato un personaggio, tanto nello standing da buon ragazzo selvaggio quanto nella facilità con cui si presta a incarnare un modello maschile post-patriarcale.
E proprio la mancata autonarrazione veicolata dai social – al netto dei servizi fotografici e delle foto rubate – ci porta a definire la nostra percezione di Mescal essenzialmente a partire dal suo lavoro. È uno degli esponenti della nuova ondata irlandese, che sta raccogliendo l’eredità di Liam Neeson e Daniel Day-Lewis, che sta ridefinendo un certo tipo umano sospeso tra malinconia e timidezza, a proprio agio con la fragilità e affascinanti senza essere belli in modo canonico. Oltre a Mescal ci sono i quaranta-cinquantenni Colin Farrell (già in voga da un ventennio ma rilanciato dal più recente del “film irlandese par excellence”, Gli spiriti dell’isola), Micheal Fassbender (oggi un po’ appannato) Cillian Murphy (fresco di Oscar per Oppenheimer) e Andrew Scott (infallibile che sia prete sexy di Fleabag o Ripley), i più giovani Barry Keoghan e Daryl McCormack, ma anche Saoirse Ronan è una perfetta testimone di questa identità irlandese.
Così come Sally Rooney, classe 1991, di cui il 12 novembre, esce in Italia il quarto, attesissimo romanzo (Intermezzo), a cui dobbiamo quel capolavoro di Persone normali all’origine della miniserie Normal People, appunto, che ha lanciato Mescal (2019). In cui l’attore, all’epoca, poco più che ventenne, diventa il testimone dell’amore e del dolore, delle gioie e delle crepe, dei bisogni e della rabbia dei millennials, dando il corpo atletico, lo sguardo liquido, il sorriso triste a Connell, figlio della working class.
In questo è davvero l’erede del Free Cinema, di Albert Finney, Richard Harris e Michael Caine, ma anche per la confidenza con il teatro (soprattutto a Dublino), che gli offre ruoli perfetti nel crinale tra adolescenza e maturità, dal Grande Gatsby (2017) al principe di Scarpette rosse (2017) fino all’appuntamento della vita con lo Stanley Kowalski di Un tram che si chiama Desiderio (2022) che gli vale il Premio Laurence Olivier.
Il cinema se ne innamora, trova in un aggiornamento del fascino solido di Burt Lancaster, del carisma malconcio di Robert Mitchum, dell’irresistibile tristezza di Richard Burton, della rudezza gentile di Russell Crowe. È uno studente che arrotonda facendo il bagnino in Grecia ne La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal (2021), ma uno così non può che essere protagonista: più del figlio violento e reticente di Creature di Dio di Saela Davis e Anna Rose Holmer (2022), è il padre single dello splendido Aftersun di Charlotte Wells (2002) a incastonarsi nella memoria, con quell’incredibile capacità di trasmettere potenza e fragilità, carisma e paura, erotismo e dolcezza dentro un film misurato e implacabile, sofisticato quanto autentico. È un ruolo che gli vale l’affetto della comunità cinefila (Aftersun è uno dei titoli meglio recensiti su Letterboxd), l’attenzione dei commentati più distratti e la sua prima nomination all’Oscar.
Uno status consolidato da Estranei di Andrew Haigh (2023), tra i più grandi film degli ultimi anni, in cui è fenomenale nell’incarnare il romanticismo dei falliti e l’erotismo dei solitari, la tenerezza degli inquieti e l’istinto dei felini e che gli permette di capitalizzare una sensibilità verso la dimensione queer in grado di rendere la sua figura ancora più complessa e stratificata.
E dopo l’avventura poco compresa di Carmen di Benjamin Millepied (2022), adattamento di Bizet nel Messico dei narcos, e la distopia Il nemico di Garth Davis (2023) che suggella l’incontro predestinato con Ronan, ecco Il gladiatore II a confermare quando la sua immagine possa trascendere epoche e confini (è virale l’accostamento del suo profilo a quello dei volti della scultura classica, sottolineandone così la postura statuaria e la regalità antica), mettendosi in dialogo con un pubblico bisognoso di eroi credibili, vulnerabili, onesti, fallibili, popolari.