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Parthenope photo by Gianni Fiorito
“La vita è più lunga del cinema”, dice Paolo Sorrentino a Cannes, dove lo stesso giorno di vent’anni fa, 21 maggio 2004, portava la sua opera seconda, Le conseguenze dell’amore.
Sorride, “Sono tutto molto belli i miei film, sono molto indulgente”, e prova a conquistare la Palma della 77esima edizione con Parthenope, che è – si legge nella sinossi – “il lungo viaggio della vita di Parthenope, dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Un’epica del femminile senza eroismi, ma abitata dalla passione inesorabile per la libertà, per Napoli e gli imprevedibili volti dell’amore. I veri, gli inutili e quelli indicibili, che ti condannano al dolore. E poi ti fanno ricominciare”.
Parthenope è Celeste Dalla Porta, nel cast Dario Aita, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Gary Oldman, Silvio Orlando, Luisa Ranieri, Daniele Rienzo e Stefania Sandrelli, arriverà nelle nostre sale in autunno con la neonata PiperFilm.
Dichiara il regista, “non c’è nostalgia, malinconia e rimpianto, ma il passaggio dell'età: la verità non fa parte della giovinezza, dove gli incidenti di percorso vengono rimossi e si ha a che fare con l’insincerità, il sogno e il desiderio. È il racconto epico del sé, che si interrompe per dirla con Kierkeegard con l’ingresso della vita etica dalla vita estetica”.
Se nel peregrinare di Parthenope – “Ho cercato la libertà sempre, in ogni scena”, dice Dalla Porta – Achille Lauro è contemplato, ma precisa Sorrentino “non Sophia Loren né il cardinal Sepe, per ovvi motivi”, il film “non è una lettera d'amore, che non sono mai stato in grado di scrivere, bensì contempla il mistero della donna e il mistero di Napoli”.
Incuriosito dall’autodeterminazione femminile, Sorrentino ha “rinunciato all’ambizione di raccontare la donna, ma ho trovato interessante accostare il mio lato femminile a un personaggio femminile, concentrandomi sullo scorrere del tempo: gli uomini, con infantilismo, credono il tempo non li riguardi, viceversa, con le donne ho trovato una corrispondenza”.
Sandrelli, che interpreta la matura Parthenope, ascrive al personaggio la volontà di “vivere ancora qualche vertigine, ma poi capisce che vita non la riguarda più di tanto, che la vita guarda altrove, sicché si aspetta di stupirsi ancora, e questa cosa la accontenta”.
Oldman, che incarna lo scrittore John Cheever, si professa “grande fan dei film di Sorrentino, ammiratore del suo unico storytelling visuale, sorprendente sempre, con virate verso la bellezza e il grottesco, personaggi stupendamente imperfetti, wit, humour, filosofia e umanità”. Venendo al set, “il primo giorno a Capri mi sono pizzicato per capire se fosse vero”, di Cheever dice di “aver vissuto quella malinconia, la solitudine, l’autodistruzione e l’abuso di alcol: avremmo potuto fare a gara bevute, ho trovato il personaggio a livello istintivo, non è un ritratto biografico”.
Narrazione che contempla temporalmente il colera, il Sessantotto, il terremoto, “appuntamenti della città di Napoli, come lo scudetto”, Parthenope annovera Ranieri quale “donna disillusa, attrice sul viale del tramonto, con la città che le tira fuori il passato e i dolori, la frustrazione per quel che poteva essere: è una donna che conserva una grande amarezza, una sfida per una solare come me” e Ferrari, che “mi piacerebbe rinascere napoletana: la mia Flora Malva - per pudore non vi dirò che c'è di me in lei – predica che la bellezza ammalia per dieci minuti e irrita per i successivi dieci anni”.
Il sacro, aggiunge Sorrentino, “non so cosa sia, da laico per me il sacro è quel che nella biografia di un individuo non si dimentica. Sacro e profano a Napoli si alimenta, il personaggio di Lanzetta, il vescovo Tesorone, non voleva essere né provocatorio né trasgressivo”.
Del personaggio di Silvio Orlando, assente sulla Croisette perché impegnato a teatro, il regista e sceneggiatore illumina “il ruolo narrativo, l’ancoraggio al realismo, quell’anima di Napoli che ha a che fare con la cultura, sicché il cognome Marotta riecheggia l’avvocato omonimo”.
Se Lanzetta parla di “quadro impressionista” e di come “i veri seduttori debbano essere sedotti”, Aita ascrive al suo Sandrino “la malattia gravissima dell'amore”, inquadrandolo quale “medium al confine tra sacro e profano”, mentre Rienzo, che interpreta il fratello di Parthenope Raimondo, lo descrive come uno che “non ce la fa, come noi tutti”. Conclude Sorrentino, “dolore e seduzione hanno la capacità di comunicare bene e velocemente, consentono di saltare la forma, un apparato quotidiano insopportabile”.