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James Dean in La valle dell'Eden (Annex)
Greta Garbo per Margherita Gauthier sconfitta da Luise Rainer per La buona terra (1938)
Candidata tre volte e risarcita con un premio alla carriera nel 1955 dopo il ritiro dalle scene nel 1941, la diva per eccellenza fu battuta nel 1930 da Norma Shearer (consorte di Irving G. Thalberg) e nel 1940 da Vivien Leigh per Via col vento (e vabbe’). Ma soprattutto da Ranier, che truccata da cinese ottenne il secondo Oscar consecutivo: troppa grazia.
Irene Dunne per L’orribile verità sconfitta da Luise Rainer per La buona terra (1938)
Non ce l’abbiamo con l’ottima Rainer, ma è abbastanza assurdo che una grandissima attrice come Dunne non abbia mai ricevuto un Oscar, nemmeno alla carriera. Cinque nomination, comprese una per Un grande amore (1940) e Mamma, ti ricordo! (1949), ma forse la statuetta l’avrebbe meritata per l’indimenticabile archetipo della commedia del ri-matrimonio.
Charlie Chaplin per Il grande dittatore sconfitto da James Stewart per Scandalo a Filadelfia (1941)
Niente da dire sull’adorabile vincitore, che come spesso capita nella storia dell’Academy viene premiato per risarcirlo di un Oscar mancato (Mr. Smith va a Washington dell’anno prima). In tutta la carriera, Chaplin ha ricevuto due Oscar onorari e uno per la colonna sonora di Luci della ribalta (nel 1973!), ma mai – e ripetiamo mai – come attore. Chaplin, eh.
Barbara Stanwyck per La fiamma del peccato sconfitta da Ingrid Bergman per Angoscia (1945)
Dio benedica per sempre l’immensa Bergman, però, diciamolo, che peccato non aver premiato Stanwyck per il magnifico noir di Billy Wilder: non solo perché sembra nata per calarsi nei panni di una glaciale dark lady, ma soprattutto perché con parrucca bionda, braccialetto alla caviglia e piano diabolico è semplicemente iconica. Ebbe un Oscar alla carriera nel 1982.
Gloria Swanson per Viale del tramonto sconfitta da Judy Hollyday per Nata ieri (1951)
Mal comune mezzo gaudio, perché a sorpresa la magnifica commediante Hollyday superò anche Bette Davis, che di Oscar ne aveva già vinti due ma non avrebbe disdegnato un terzo per Eva contro Eva. Tuttavia, settant’anni dopo, chi è rimasta nella storia: fantasmagorica, inquietante, autobiografica, Swanson è indimenticabile come Norma Desmond.
James Dean per La valle dell’Eden sconfitto da Ernest Borgnine per Marty, vita di un timido (1956)
Tre film da protagonista, due nomination entrambe postume. Marty era il film dell’anno e l’Academy, a parte rare occasioni, tende a non premiare defunti: però è difficile non celebrarlo come tenera e spaesata icona dell’impossibilità di poter essere innocenti per sempre. Un anno dopo fu battuto anche Yul Brynner per Il re ed io. In fondo, a chi interessa?
Deborah Kerr per L’anima e la carne sconfitta da Joanne Woodward per La donna dei tre volti (1957)
La vittoria è inappuntabile, ma in qualche modo dovevamo celebrare la meravigliosa scozzese, candidata per ben sei volte tra il 1950 e il 1961 e mai premiata, fino al tardivo risarcimento alla carriera nel 1994. Nel film di Huston fa la suora ed è l’unica in scena insieme al marine Robert Mitchum: l’incontro di due solitudini, la guerra attorno, un amore impossibile.
Rosalind Russell per La signora mia zia sconfitta da Susan Hayward per Non voglio morire (1959)
La sublime commediante ricevette un Premio umanitario Jean Hersholt nel 1973, ma avrebbe meritato l’Oscar per ognuna delle sue quattro candidature andate a vuoto. Più di tutte per la dirompente e scatenata zia Mame dell’adattamento del romanzo di Patrick Dennis, un ruolo che comunque le ha permesso di entrare nell’immaginario.
Richard Harris per Io sono un campione sconfitto da Sidney Poitier per I gigli del campo (1964)
Difficile scontrarsi con un monumento nazionale come Poitier, primo afroamericano a vincere l’Oscar come miglior attore per un film non esattamente eccezionale, ma ci piace celebrare questo attore che portava in faccia l’intera working class (segnaliamo l’ottimo documentario The Ghost of Richard Harris) in un atto fondamentale del Kitchen sink realism.
Richard Burton per Chi ha paura di Virginia Woolf? sconfitto da Lee Marvin per Cat Ballou (1967)
Un caso incredibile: sette candidature (tre consecutive) e mai un premio, nemmeno alla carriera (anche perché è morto a 58 anni). C’era sempre qualcuno più bravo di lui? Forse no, ma c’erano sicuramente attori più “attrezzati”. La beffa più grande con l’opera prima di Mike Nichols: l’Oscar, il secondo, lo preso la sua partner, in scena e nella vita, Elizabeth Taylor.
Peter O’Toole per Il leone d’inverno sconfitto da Cliff Robertson per I due mondi di Charlie (1969)
Sodale di Burton nel privato (immaginate una bevuta con loro), condivide con lui anche la sfortuna agli Oscar: otto (otto!) candidature e mai (mai!) un premio, se non il solito riconoscimento alla carriera nel 2003 (ma nel 2007, colpo di coda, altra nomination per Venus). Nel period drama di Anthony Harvey, tiene testa a Katharine Hepburn, che ebbe il secondo Oscar dopo trentaquattro anni.
Gena Rowlands per Una moglie sconfitta da Ellen Burstyn per Alice non abita più qui (1975)
Burstyn è bravissima e aspettava l’Oscar da qualche anno, ma quello di Rowlands è una delle interpretazioni più indimenticabili della storia del cinema. Un tour de force emotivo che suggella una delle collaborazioni più importanti del cinema americano (quella con il marito John Cassavetes) e che continua a ispirare le attrici di ogni generazione.
Peter Sellers per Oltre il giardino sconfitto da Dustin Hoffman per Kramer contro Kramer (1980)
Una delle cinquine più mirabolanti di sempre (ci sono anche Jack Lemmon, Al Pacino e Roy Scheider) per un premio destinato d’ufficio al vincitore annunciato, alla quarta candidatura (comunque splendido). Però Sellers regala un involontario commiato (è morto d’infarto pochi mesi dopo l’Oscar mancato) che continua a commuovere ed emozionare.
Albert Finney per Sotto il vulcano sconfitto da F. Murray Abraham per Amadeus (1984)
Il destino degli attori britannici all’Oscar? Ritrovarsi sempre in gara con un vincitore annunciato. In questo caso Abraham, che con Antonio Salieri trova il ruolo della vita nel capolavoro di Milos Forman. Ma il film di Huston è qualcosa in più: una sfida alla morte, una discesa agli inferi, un testamento. E Finney, così autodistruttivo, è leggendario.
Michelle Pfeiffer per I favolosi Baker sconfitta da Jessica Tandy per A spasso con Daisy (1990)
La vincitrice è inattaccabile e l’Oscar fu non solo un tributo a una carriera viva ma anche la testimonianza che si può vincere un premio competitivo anche a 80 anni. Ma la trentunenne Pfeiffer incanta: alla definitiva prova da diva, fa innamorare Jeff Bridges e fa incarognire suo fratello Beau, canta con la sua voce e seduce il pubblico con la sola presenza. Animale.
Sharon Stone per Casinò sconfitta da Susan Sarandon per Dead Man Walking – Condannato a morte (1996)
Al quinto tentativo, Sarandon riuscì a ottenere l’agognata statuetta (da allora nemmeno una candidatura, destino tipico), nei panni di una suora in un dramma contro la pena di morte (più esca da Oscar di così). Ma chi resta impressa nella memoria e continua a straziare il cuore è l’ultima diva del Novecento, nella sua prima e unica (finora) nomination.
Ian McKellen per Demoni e dei sconfitto da Roberto Benigni per La vita è bella (1999)
Prima della cerimonia, Sir Ian andò da Nick Nolte (in gara con Affliction) e disse: “Se vince quella piccola scorreggia italiana mi verrà un colpo apoplettico”. È un aneddoto che fa ridere e, se guardate bene l’annuncio del premio, scorgerete nel suo volto un’espressione irresistibile. Possiamo dirlo: quell’Oscar andava a lui, supremo nei panni di James Whale.
Annette Bening per American Beauty sconfitta da Hillary Swank per Boys Don’t Cry (2000)
Quattro nomination e mai un Oscar, che avrebbe meritato almeno nell’esordio di Sam Mendes, all’epoca super celebrato. Difficile battere la sorprendente newcomer che interpreta un ragazzo transgender, ma nel ruolo della moglie di Kevin Spacey, ossessionata, isterica e sull’orlo del baratro, disegna un personaggio sintomatico del suo tempo.
Richard Jenkins per L’ospite inatteso sconfitto da Sean Penn per Milk (2009)
Doveva essere l’anno del redento wrestler Mickey Rourke e in gara c’erano anche Brad Pitt come Benjamin Button e Frank Langella nei panni di Nixon. Alla fine la spuntò il biopic più “giusto” per quel tempo (eravamo all’alba della stagione di Obama), ma da queste parti lo sfuggente, autunnale, perfetto common man di Jenkins ci scaldò il cuore.
Bruce Dern per Nebraska sconfitto da Matthew McConaughey per Dallas Buyers Club (2014)
Naturalmente il sex symbol che si sacrifica in nome dell’Oscar (rinuncia allo status, trasformazione fisica, messaggio incorporato) travolge come da copione l’Academy. Eppure in quell’anno c’era anche Leonardo DiCaprio come Wolf di Wall Street e soprattutto l’anziano veterano che, nel road movie di Alexander Payne, regala una straordinaria prova della vita.
Isabelle Huppert per Elle sconfitta da Emma Stone per La La Land (2017)
Il capolavoro di Damien Chazelle è tra gli ultimi classici del cinema americano e grazie al premio Stone si consolidò nello star system. Niente male, se non fosse che nella stessa categoria c’era una fuoriclasse, forse la massima attrice europea in attività, addirittura colossale in un personaggio scomodo, glaciale, feroce. Forse troppo implacabile per i palati dell’Academy.
Glenn Close per The Wife sconfitta da Olivia Colman per La favorita (2019)
Qua siamo nei pressi dell’accanimento. Otto candidature in quarant’anni, almeno due vittorie mancate che gridano vendetta (Attrazione fatale e Le relazioni pericolose), un Oscar che sembrava destinato d’ufficio a lei (la ghostwriter del marito Nobel, ironico) se non altro per risarcirla di troppe sconfitte. Un’interpretazione matura, titanica, magistrale: niente.