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Michelle Yeoh e Jing Li in Everything Everywhere All at Once (credits: Allyson Riggs)
Miglior film: Everything Everywhere All at Once
È il film più forte dell’annata, non solo per il record annuale delle 11 nomination ma per tutto ciò che rappresenta: la consacrazione popolare della A24, la moda del multiverso trasferita dal cinecomic a una storia più ampia e stravagante, il racconto inclusivo con protagonisti asiatici e linee narrative LGBTQ+. Politicamente corretto, nel senso più largo. Il principale rivale: Niente di nuovo sul fronte occidentale (in tempo di guerra, ogni war movie è trincea).
Miglior regia: Daniel Kwan e Daniel Scheinert – Everything Everywhere All at Once
Hanno vinto il Directors Guild of America Award (di norma anticamera del premio dell’Accademy, anche perché i votanti sono in larga parte gli stessi), sono giovani e rampanti (EEAAO è il loro secondo lungometraggio), uno dei due (Kwan) è di origini cinesi (sarebbe il terzo asiatico a trionfare nella categoria dopo Ang Lee, che di Oscar ne ha vinti due, e Bong Joon-ho). E hanno avuto la benedizione di Steven Spielberg, che quest’anno ci credeva davvero con The Fabelmans (e avrebbe meritato la statuetta). In caso di vittoria, sarebbe il terzo duo a vincere dopo Robert Wise e Jerome Robbins trionfarono con West Side Story (che, curiosamente, Spielberg ha rifatto l’anno scorso...) e i fratelli Coen con Non è un paese per vecchi.
Miglior attrice: Michelle Yeoh – Everything Everywhere All at Once
Categoria interessante, con lo scontro al vertice tra Yeoh (al momento la favorita) e Cate Blanchett per Tár (la front runner più forte degli ultimi mesi). Pensiamo che alla fine la spunterà la star di EEAAO: è un’icona del cinema di Hong Kong, un’eroina action, una sessantenne che dimostra la possibilità di ruoli originali per le donne della sua età. E inoltre potrebbe diventare la prima asiatica a vincere l’Oscar come miglior attrice protagonista. Ha scritto – e subito cancellato – un post controverso su Instagram (“Un terzo Oscar confermerebbe lo status di titano dell’industria di Blanchett, mentre a Yeoh un Oscar cambierebbe la vita”), ma gli elettori avevano già votato.
Miglior attore: Austin Butler – Elvis
Altra gara appassionante, con tre attori che se la giocano fino all’ultimo. Ma tra Brendan Fraser, sex symbol decaduto per un combinato disposto di problemi di salute e conseguenze di molestie sessuali e tornato alla ribalta con “Il Ruolo Della Vita” di The Whale, e Colin Farrell, che alle soglie della mezza età si porta dietro l’aria vissuta e inquieta del ragazzo che ha attraversato mille traversie, in Gli spiriti dell’isola, secondo noi ce la farà il giovane Butler: l’Academy ama i biopic (anche mediocri), ma la performance è stupefacente e per una volta al mimetismo si accompagna un approccio iperrealista davvero spiazzante.
Miglior attrice non protagonista: Angela Bassett – Black Panther: Wakanda Forever
Fino a poche settimane fa sembrava imbattibile, con l’agognato record della prima interprete del Marvel Cinematic Universe premiata con l’Oscar. Ma la vittoria della carismatica regina (che ha il sostegno di tutta la comunità afroamericana, che quest’anno gioca in sordina) è messa in discussione da un’underdog di peso: è Jamie Lee Curtis, che per la sua prova in EEAAO ha ricevuto uno Screen Actors Guild Award e l’amore dei colleghi.
Miglior attore non protagonista: Ke Huy Quan – Everything Everywhere All at Once
Statuetta praticamente già assegnata: ha vinto quasi tutti i premi dell’Award Season.
Miglior sceneggiatura originale: Daniel Kwan e Daniel Scheinert – Everything Everywhere All at Once
Hanno vinto il Writers Guild of America Award, che di solito è un buon indicatore (ma non scontato: l’anno scorso l’Oscar andò a Belfast, non candidabile dalla WGA). Ma anche questa è una categoria bizzarra: ultimamente i premi per le sceneggiature sono i contentini per chi non può vincere altro (Belfast, Una donna promettente, Jojo Rabbit, Get Out, BlacKkKlansman, Chiamami col tuo nome). Seguendo questa logica, potrebbe essere terreno di vittoria per Martin McDonagh (Gli spiriti dell’isola) e Todd Field (Tàr), due film che rischiano di uscire a mani vuote.
Miglior sceneggiatura non originale: Sarah Polley – Women Talking
Doveva essere uno dei front runner dell’Award Season: il ritorno di una regista ferma da un decennio, una storia contro i soprusi del patriarcato, un cast da urlo. Come altri film femministi della stagione (The Woman King, She Said), è rimasto fuori dai giochi (ma con due nomination pesanti: l’altra, per il miglior film, è emblematica). I rivali non scalpitano (a parte i tedeschi del fronte occidentale).
Miglior film internazionale: Niente di nuovo sul fronte occidentale (Germania)
Con nove nomination in totale è praticamente impossibile che il nuovo adattamento del romanzo di Erich Maria Remarque non torni a Berlino con la statuetta. Non era il titolo preferito di Netflix, ma lo streamer l’ha cavalcato bene.
Miglior film d'animazione: Pinocchio di Guillermo del Toro
Altra partita chiusa: storia forte, regista forte, produzione forte, campagna forte (Netflix), gara facile.
Miglior fotografia: James Friend – Niente di nuovo sul fronte occidentale
Ci sono due pesi massimi: Roger Deakins per Empire of Light e Darius Khondji per Bardo (unica candidatura per entrambi i film). C’è il tedesco Florian Hoffmeister per Tàr. C’è una donna: l’australiana Mandy Walker per Elvis, che ha vinto il premio dell’American Society of Cinematographers. Ma scommettiamo sul britannico Friend: il war movie di Netflix è stato apprezzato dall’Academy soprattutto per i valori formali, fotografia in primis.
Miglior montaggio: Paul Rogers – Everything Everywhere All at Once
La lotta è a due: il Rogers del film più lanciato dell’annata o l’Eddie Hamilton di Top Gun: Maverick, il blockbuster che ha salvato l’industria cinematografica americana? Puntiamo sul primo non solo perché il film si regge soprattutto sul montaggio, ma anche per un “effetto a strascico”.
Miglior scenografia: Florencia Martin e Anthony Carlino – Babylon
Il titanico film di Damien Chazelle è stato abbastanza detestato negli Stati Uniti, ma è difficile non celebrarne (almeno) lo sforzo scenografico. Unica vera rivale? Catherine Martin per Elvis. Leggi sotto.
Migliori costumi: Catherine Martin – Elvis
Martin, sì, la moglie di Baz Luhrmann, che ha già vinto quattro Oscar, due per la scenografia e due per i costumi, facendo doppietta in entrambi i casi (2002 per Moulin Rouge! e 2014 per Il grande Gatsby). Forse non sarà doppietta, ma sui costumi ci sbilanciamo con relativa sicurezza. Ruth E. Carter per Black Panther: Wakanda Forever (ha già vinto con il primo film) e Mary Zophres per Babylon rincorrono.
Miglior trucco e acconciatura: Mark Coulier, Jason Baird e Aldo Signoretti – Elvis
Bella gara anche qui: ce la faranno i tre del biopic sul Re a sconfiggere i truccatori di The Batman (quel Pinguino...) e The Whale (che hanno trasformato Fraser in obeso)? Probabile.
Migliori effetti speciali: Joe Letteri, Richard Baneham, Eric Saindon e Daniel Barrett – Avatar: La via dell’acqua
Che James Cameron non sia candidato tra i registi è assurdo, che l’Academy gli neghi l’Oscar per gli effetti speciali sarebbe allucinante.
Miglior suono: Mark Weingarten, James H. Mather, Al Nelson, Chris Burdon e Mark Taylor – Top Gun: Maverick
Un premio che, al momento, sembra blindato. E un modo per premiare il prodigio tecnologico (ma anche artigianale) di un film molto amato dal pubblico.
Miglior colonna sonora: John Williams – The Fabelmans
È un azzardo, lo sappiamo, perché il magnifico Justin Hurwitz di Babylon meriterebbe un altro Oscar. Però qualcosa ci dice che quest’anno l’Academy vuole onorare il novantunenne Williams, giunto alla candidatura numero cinquantatre (!) in cinquantacinque anni. Per suggellare una carriera immensa e premiare, in qualche modo, anche un film altrimenti dimenticato (e, di conseguenza, un sodalizio amatissimo che ha segnato la storia del cinema).
Miglior canzone originale: Naatu Naatu (musiche di M. M. Keeravani; testo di Chandrabose) – RRR
Altro titolo che ambiva a essere il dark horse dell’edizione, si è dovuto accontentare di una sola candidatura. E ha tutta l’aria di trasformarla in statuetta nonostante la concorrenza di Rihanna, che dopo il numero al Super Bowl ha dato una scossa alla sua campagna per Black Panther.
Miglior documentario: Navalny
Fire of Love è il più clamoroso della cinquina, Tutta la bellezza e il dolore il più commovente, All That Breathes il più forte, A House Made of Splinters il più militante. Ma nessuno sembra adatto a questo momento storico come stagione come il doc sull’oppositore di Putin.
Miglior cortometraggio: An Irish Goodbye
L’Italia spera con Le pupille di Alice Rohrwacher, ma c’è la storia di due fratelli, uno dei quali affetto da sindrome di Down, che si confrontano con la morte prematura della madre: ha commosso tutti ed è parlato in inglese (cosa da non sottovalutare).
Miglior cortometraggio d'animazione: Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo
Tratto dal libro illustrato di Charlie Mackesy, è il titolo forte di Apple, la vincitrice dell’anno scorso.
Miglior cortometraggio di documentario: Raghu, il piccolo elefante
Netflix ci scommette, chi siamo noi per ipotizzare altro?