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Nicole Kidman
In tempi di empowerment femminile, ci vuole coraggio a chiamare un’eroina Babygirl. Ci vuole soprattutto un’attrice come Nicole Kidman per incarnarla.
Audace e sempre pronta ad avventure artistiche estreme, domina il film di Halina Reijn, regista olandese che si accontenta di flirtare coi thriller erotici del secolo scorso. In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Babygirl esplora la sessualità tormentata di una top manager, che rischia di compromettere la sua carriera stringendo una relazione con un giovane stagista, Samuel (Harris Dickinson).
Star senza età, l’attrice mette in campo la sua intelligenza e riconferma il suo potere di fascinazione. In Babygirl c’è una perfetta mise en abyme tra l’eroina, leader di una società robotica hi-tech, e la diva, che con splendida ironia mostra il suo volto in primo piano mentre si sottopone a un’iniezione di Botox. Con Romy si procura tutto il piacere, appena un po’ timorosa ma desiderosa che tutto le sfugga di mano.
Sullo sfondo degli uffici vetrati dell’azienda, Nicole Kidman resta costantemente ambigua, componendo una donna di cinquant’anni aggrappata al suo desiderio, che si lascia scivolare addosso le ingiunzioni morali e fisiche. Il film sembra voler spuntare le caselle dell’audacia, sfidando un’attrice più intelligente di lui nell’esplorazione della condizione femminile.
Ma c’è qualcosa di meta in Babygirl, che si inscrive nel suo cinema più interessante dopo aver giocato a lungo la stessa parte nelle serie. Perché Nicole Kidman ha fatto di più che essere una grande attrice.
Dopo aver reso possibile un tipo di narrazione e aver inventato un genere cinematografico - il “Nicole Kidman movie” è una delle opere d’autrice più coerenti del cinema mondiale, nelle scelte e nei motivi ossessivi che lo attraversano - è passata alla televisione (Big Little Lies, Top of the Lake, The Undoing, Expats, Lioness…), senza dimenticare di lasciare il segno. Anche nelle serie meno riuscite, c’è sempre qualcosa che ci guarda dritto negli occhi, un’atmosfera tutt’altro che tranquilla, soprattutto quando i racconti evocano il rapporto tra l’eroina e il focolare domestico, colonna portante del lavoro dell’attrice.
Nelle prime scene di Fur, Diane Arbus sente strani rumori provenire dall’appartamento al piano superiore. Attraverso i condotti dell’aria e le tubature dei sanitari, avverte tutti i segni provenienti da questo misterioso spazio adiacente. Allo stesso modo, la madre di The Others rabbrividisce lungo i corridoi, avanzando su pavimenti che scricchiolano dietro a porte che sbattono. Ci sono presenze, forse ostili, forse amorevoli, nella casa. La casa diventa un’estensione dell’inconscio e tutte le forze telluriche del mondo sono polarizzate dalla casa.
Henry James (Ritratto di signora) e Virginia Woolf (che interpreta in The Hours) costituiranno il vertice letterario del suo cinema popolato da casalinghe borderline. Vedove, donne perseguitate, abbandonate dai propri uomini, partiti per la guerra (Ritorno a Cold Mountain) o per una promenade notturna (Eyes Wide Shut). Nelle sue performance, l’attrice interroga costantemente la frizione tra la normalità assoluta (come madre, come casalinga) e lo spazio infinito della follia e del paranormale.
Nicole Kidman abita una cornice narrativa opposta a quella di Julia Roberts, rivale del passato dentro commedie romantiche che prevedevano un incontro e un viaggio, sempre verso il principe azzurro. Con Kidman, la forza non è lo slancio ma il confino, è la donna in un interno, lo spazio domestico come un campo di battaglia. Se Roberts interpretava ruoli caldi, Kidman deve la sua celebrità a personaggi freddi, perversi o nevrotici tra pareti che diventano il teatro di un delirio isterico.
Il suo strano sguardo in camera conferma l’attrice come un sex symbol paradossale, che gioca sulla distanza inquietante, anche nella sensualità. E l’immaginario insolito che veicola lavora ai fianchi Babygirl. Nel quadro caotico e nel permanente disordine emotivo, è lei in a tenere le fila tese di un’angoscia che monta, di un corpo eroso dagli anni e da un’anima tormentata da domande a cui non sa rispondere. Trascorre del tempo col suo amante, vaga per la città (e per la vita) riuscendo a preservare il mistero delle sue motivazioni più profonde. È un’attrice al lavoro, la m.d.p la registra e non esiste nient’altro.
Mentre la guardiamo il ricordo di Eyes Wide Shut si attiva immediatamente con l’idea che un quarto di secolo dopo il suo personaggio diventa finalmente soggetto della sua sessualità. Pensiamo pure a Dogville e a Birth, due ritratti fuori di sé, più che all’erotismo soft di Adrian Lyne (9 settimane e mezzo, Attrazione fatale) o di Paul Verhoeven (Basic Instinct), referenze esplicite della regista. Nella sua ouverture - il film comincia con dei gemiti su fondo nero prima di scoprire l’eroina a cavallo del marito (Antonio Banderas) simulare un orgasmo - Babygirl rovescia il punto di vista del film di Kubrick.
Se in Eyes Wide Shut il personaggio maschile passava tutto il tempo a inciampare sul mistero del desiderio della moglie, qui è la donna stessa a inciampare sul proprio desiderio, incalzata da fantasie rimandate di cui non sa che fare, almeno fino a quando non vede un giovane uomo “domare” un cane ringhioso con un cupcake. Turbamento immediato e indignato.
Se Babygirl si trattiene al di qua del ridicolo è per merito della sua protagonista e di quel suo singolare desiderio di divertirsi sulla propria pelle, mettendosi letteralmente in ginocchio in un film che flirta vertiginosamente con la sua vulnerabilità e fa il paio con la sua temerarietà: mostrarsi per quello che è in una cabina di crioterapia. Davanti al biasimo della figlia e dell’amante, che le rinfacciano un corpo consumato dal tempo e dall’esperienza, quasi confessa la paura di essere un mostro. Ed è nella contemplazione di questo splendido mostro fragile che il film si rivela stordente.
Perché c’è stato un giorno in cui Nicole Kidman è stata perfetta. Quando accetta di girare quello che sarà l’ultimo film di Kubrick, lei e Tom Cruise incarnano la coppia più glamour di Hollywood. Sono belli, giovani, celebri, ricchi. Il loro talento è a misura della loro ambizione. Hollywood d’altronde è fatta per registrare la perfezione.
Eyes Wide Shut, a dispetto del titolo, è un sogno ad occhi aperti sul corpo femminile. Kubrick voleva che il corpo di ogni attrice ricordasse quello della star, silhouette su tacchi altissimi e dentro abiti lunghi. Intanto sotto i capelli biondi e la pelle splendidamente opalina, forse la pelle più chiara del cinema americano, infuriava il subconscio della protagonista, il suo mondo sotterraneo preparava una violenta eruzione. Eyes Wide Shut fissa per sempre la maniera in cui autori e spettatori dovranno sognare l’attrice.
Negli anni si aggiungeranno delle variazioni, la moglie, la sposa modello, la madre, l’infanticida, la strega e poi un nuovo fenomeno: le spettacolari trasformazioni del suo corpo attraverso un uso disinvolto della chirurgia estetica. È difficile pensare ad altro quando si vede Australia o più recentemente A proposito dei Ricardo. Nel ruolo di Lucille Ball, Nicole Kidman è allo stesso tempo completamente altra (finge la voce, la camminata...) e completamente se stessa (con quell’aura iconica unica).
Le correzioni estetiche del suo volto si fondono con le molteplici protesi che la mutano nella showrunner di I love Lucy, producendo una strana confusione tra quello che era, quello che è diventata e quello da cui è travestita. Il modo in cui esagera la già esagerata recitazione da sitcom di Bell è esaltante. Una maschera posata su una maschera. Si potrebbe passare la vita intera a guardarla strabuzzare gli occhi nella finta cucina di uno studio hollywoodiano. Il suo aspetto, sempre più irreale, giovane, in forma, sviluppa oggi un nuovo tipo di favola kidmaniana, a cui Babygirl non è insensibile ma a cui soccombe suo malgrado.
Se il film ricorre al principale dispositivo drammaturgico di questa grande attrice - la donna che con ogni mezzo e a qualunque costo aspira a emanciparsi dalla prigione del matrimonio – il lavoro sempre perturbante di Nicole Kidman non si concilia con la richiesta di trasparenza e le relazioni di genere che regolano il movimento MeToo. Il volto post umano dell’attrice fa eco al canone dell’eterna giovinezza a colpi di ritocco digitale e di botox, annullando le premesse del film e un mondo a cui non sembriamo più voler appartenere.
A 57 anni, il viso e il corpo biotech di Nicole Kidman sono diventati il vero spettacolo. Se Melanie Griffith e Meg Ryan, Michelle Pfeiffer e Catherine Zeta-Jones sono evaporate, Nicole Kidman continua a trionfare al cinema come in televisione. Il culto della correzione nell’attrice si è fatto racconto fino a formulare un paradosso propriamente femminile: consacrare tempo e sforzi a plasmare la propria vita fino al punto di non riconoscerla più.
Romy ha passato la vita a fingere orgasmi e a fingersi la moglie perfetta su belle immagini: il saggio letto coniugale, la coppia ricca e innamorata che si reca a serate dove tutti l’ammirano, la colazione in famiglia, il bacio del mattino prima di correre al lavoro, il giardino curato, i bei vestiti nell’armadio. Quello che avviene al suo viso materializza questa ricerca affannosa, nel film come nella vita: provare a strappare l’esistenza, le apparenze e gli amori al tempo che sciupa tutto.
E anche questa volta l’usura non si fa attendere e arriva da fuori, ancora una volta un uomo, un ragazzo impertinente. Kidman gode, una, due, cento volte ma alla fine le tocca di nuovo tenere insieme tutto, la casa e i sogni (erotici), la mamma e la “cagna”. Un film che si voleva torrido si boicotta da solo, incrociando un povero diavolo e una donna consegnata al narcisismo terminale di un nuovo patto faustiano. E anche per questo ci voleva coraggio, il coraggio di un’attrice che ha costruito la sua filmografia sul dover-essere femminile: la perfezione.