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Noi credevamo © 01 DISTRIBUTION
L’abbaglio, il nuovo film di Roberto Andò, arriva al cinema da giovedì 16 gennaio e interroga una delle grandi questioni nazionali: l’avventura dell’Unità d’Italia, con le sue storture e le sue occasioni mancate. Un tema che abbiamo visto spesso sul grande schermo: ecco dieci film per raccontare una pagina fondamentale della nostra storia.
La presa di Roma
Filoteo Alberini (1905)
Il primo film italiano proiettato in pubblico sul territorio nazionale è un cortometraggio (di cui oggi ci restano circa 4 minuti) che fu presentato il 20 settembre 1905 per commemorare la presa di Porta Pia. L’assalto dei bersaglieri viene raccontato attraverso una serie di quadri autonomi, realizzati sia in teatri di posa sia in esterni dal vero, che grazie al montaggio ricostruisce l’evento con intento divulgativo e piglio spettacolare. Pioniere del kolossal all’italiana (il budget si aggirava su 500 lire, cifra folle per l’epoca), ricostruito e restaurato cent’anni dopo.
1860
Alessandro Blasetti (1934)
Uno degli apici del regista: in pieno Ventennio, la costruzione di una memoria collettiva passa attraverso la pretesa del regime fascista di dichiararsi in continuità con il Risorgimento. Ci sono evidenti risonanze tra passato e presente (ruralismo, xenofobia, populismo) e il popolo rivoluzionario occupa la prima linea rispetto a un Garibaldi che aleggia ieratico e demiurgico. Ma il progetto propagandistico non fa prigioniero il film, tant’è che non fu amato dai fascisti d’apparato: lo consideravano troppo antiretorico, poco celebrativo e sostanzialmente “inutile”.
Camicie rosse (Anita Garibaldi)
Goffredo Alessandrini (1952)
Biopic (diciamo) su misura della massima diva dell’epoca, Anna Magnani, che si lasciò dirigere dall’ex marito, il già regista di regime Goffredo Alessandrini che nel dopoguerra era un po’ caduto in disgrazia. Ma i contrasti tra i due furono tali che la macchina da presa passò all’aiuto regista, l’allora appena trentenne Francesco Rosi. Il cardine è romantico, con il rapporto tra l’Eroe dei due mondi (Raf Vallone come un santino) e la sua leggendaria moglie in primo piano, e la riflessione storico-politica è soppiantata dall’avventura in costume. Un wannabe feuilleton.
Viva l’Italia!
Roberto Rossellini (1961)
Il film ufficiale delle celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia diventa, nelle mani del maestro, l’anatomia di una leggenda: l’epica impresa dei Mille come copertura retorica di una più controversa operazione politica in cui un popolo viene liberato da un esercito che non conosce i suoi problemi reali. Per Rossellini è un aggiornamento neorealista, per spirito e sguardo, tant’è che il titolo originario era Paisà 1860, a sottolineare le sintonie tra il Risorgimento e la guerra di Liberazione. Dalla parte dei vinti, a ritrovare la misura vera della storia nell’anima dell’uomo.
Il gattopardo
Luchino Visconti (1963)
È curioso che una delle sequenze più iconiche del cinema italiano, il ballo a palazzo, sia una danza di morte, la profezia di una fine: la metafora del crepuscolo di un mondo (l’aristocrazia siciliana) e della nascita di un altro (la borghesia arrembante). Con una battuta entrata nell’immaginario, ancorché sempre piegata alle esigenze (“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”), un capolavoro che è una sentenza: l’annessione al Regno d’Italia è l’avvento di “sciacalli e iene” che continueranno a credersi “il sale della terra”. Da vedere con Senso, naturalmente.
Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato
Florestano Vancini (1971)
Il Risorgimento riletto dopo Sessantotto: nel sondarne i lati oscuri c’è il bisogno di mettere in crisi la narrazione ufficiale, dando voce agli umiliati e offesi e sfidando la reticenza nazionale (un atto d’insurrezione popolare contro i notabili borbonici represso dalle truppe garibaldine: il sottotitolo è già un atto d’accusa). Scritto con il contributo di Leonardo Sciascia, un’inchiesta dinamitarda che riprende una novella di Verga, guarda al western (primi piani che grondano sudore, totali pieni di calura e polvere), trova l’allegoria (è anche il racconto sulle origini della ragion di Stato).
Allonsanfàn
Paolo e Vittorio Taviani (1974)
Dopo San Michele aveva un gallo (1972), un’altra ricognizione storica per leggere e interpretare le vicende contemporanee: il riflusso ideologico si riverbera nel tradimento degli ideali, il conflitto delle idee cede il passo all’arroccamento identitario, la promessa del disordine annega nell’agio della restaurazione. “La dolcezza del vivere” prima della rivoluzione ha il sapore amaro della consapevolezza. Il tramonto dell’utopia e la fuga nel privato come approdi di una riflessione che non si piega alla celebrazione e problematizza ragioni e sentimenti di una scelta.
Quanto è bello lu murire acciso
Ennio Lorenzini (1975)
L’impresa del patriota Carlo Pisacane rifulge in un film spavaldo e originale che rinuncia alla retorica didascalica e sceglie lo spontaneismo ribelle, mettendo insieme la scuola documentaristica del regista (che esordì dopo molti corti: purtroppo la sua opera prima resta anche l’unica, essendo morto prematuramente nel 1982), la ricerca etnomusicale di Roberto De Simone (la riscoperta del folklore per resistere all’appiattimento di una presunta identità nazionale), le risonanze con il presente (Stefano Satta Flores lo interpreta come un Che Guevara risorgimentale).
Arrivano i bersaglieri!
Luigi Magni (1980)
Dal cantore della Roma papalina, una commedia umana quasi tutta in interni tra la Breccia di Porta Pia e la fine dello Stato Pontificio, una specie di Gattopardo in minore, incarnato da un personaggio più ottuso e reazionario che si dichiara prigioniero politico del neonato Regno (Ugo Tognazzi). Quel che resta del passato è visto con ferocia e sarcasmo, ma lo scetticismo non risparmia i nuovi potenti: ieri come oggi e così anche domani gli opportunismi, i trasformismi e gli arrivismi sono sempre gli stessi. Un’altra sentenza: “Ma chi te credi che continuerà a comanna’ a Roma?”.
Noi credevamo
Mario Martone (2010)
Dal romanzo di Anna Banti, la nascita malata di una Nazione, l’Italia stuprata e ferita dal brigantaggio istituzionale e dal terrorismo politico. Quattro capitoli che sono al contempo diramazione della storia centrale, storie nelle storie e Storia ufficiale riveduta e corretta: un contro-sussidiario polifonico e rapsodico, che parte dal basso per raccontare l’illusione del bene assoluto, il fallimento insurrezionale, il pessimismo cosmico, l’impossibilità della resa dei conti. “Eravamo tutti ragazzi e siamo diventati assassini: non c’è nessun paradiso da conquistare”.