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Mike Bongiorno
Un po’ si infastidiva, Mike Bongiorno, quando il cinema lo cercava per interpretare se stesso. Perché qualche ambizione d’attore, in fondo, ce l’aveva. Non perdeva occasione per dire che, tutto sommato, si era sentito sfruttato dal grande schermo, troppo pigro per cucirgli addosso personaggi. Ma, insomma, che pretendeva? Mike – nato a New York il 26 maggio di cento anni fa – è stato il primo divo catodico, il presentatore per eccellenza, e in un certo senso ha incarnato la televisione stessa. Talmente noto, anzi di più, da incastonarsi nell’immaginario di un popolo, impossibile da scontornare da quel piccolo schermo che aveva contribuito a fondare (ha condotto Arrivi e partenze, il primo programma trasmesso dalla Rai dopo l’inizio delle trasmissioni ufficiali), lanciare (il fenomeno oggi inconcepibile di Lascia o raddoppia?, dapprima posizionato al sabato e poi spostato al giovedì su richiesta dei gestori dei locali pubblici, preoccupati per il calo degli incassi nella serata più redditizia), consolidare (i quiz che hanno letteralmente fatto la storia, i festival da Sanremo a Castrocaro, i Dischi per l’estate e le Miss Italia), spacchettare (l’emigrazione nelle emittenti commerciali di Silvio Berlusconi, di cui è stato, nell’ordine, trofeo, testimonial, supporter, zavorra), presidiare (mai un’assenza, a parte l’ultima fase in cui era triste solitario y final perché abbandonato da Mediaset).
Intendiamoci, non è stato l’unico ad anelare l’espansione del proprio volto, da presenza domestica a faccione cinematografico: ma, tra un Enzo Tortora accreditato nell’introvabile (forse perduto) Italia piccola di Mario Soldati e un Pippo Baudo che appare in qualche musicarello, è proprio Mike il televisivo che ha creduto più di tutti a una possibile carriera d’attore. Per poco, certo, ma ci ha provato davvero, da cui il fastidio quando, ormai troppo iconico, veniva contattato solo per camei funzionali. Che comunque accettava, beninteso, anche se, sic transit gloria mundi, dagli anni Ottanta dovette cedere il passo all’amico-rivale Baudo come “epitome del conduttore” (Sono un fenomeno paranormale, Anni 90 – Parte II) in quelle sporadiche occasioni in cui un programma televisivo entrava in un film.
Forse il desiderio di cinema gli veniva dalla biografia francamente singolare: Mike, cioè Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, figlio di un potente avvocato che fu presidente dell’Ordine Figli d’Italia in America e di una rinomata borghese di Torino, è l’uomo che ha convertito l’American Dream nel sogno italiano (rientrò in patria dopo la crisi del ’29), che scelse la parte giusta della Storia (staffetta partigiana, fu catturato dai nazisti, incarcerato a San Vittore dove conobbe Indro Montanelli, torturato, deportato in campi di concentramento, liberato grazie a uno scambio di prigionieri), che abbracciò il giornalismo (grazie al bilinguismo, fu trait d’union tra Italia e States), che il gossip l’ha frequentato, sì, ma in modo clamoroso (l’allora giovane moglie Daniela scappò in America e sposò un altro uomo, diventando così bigama; poi tra i due tornò la pace). Una vita da film, diciamolo.
Difficile dire qualcosa di nuovo dopo la Fenomenologia di Umberto Eco, forse il saggio italiano più famoso del dopoguerra che immalinconì Mike (che però ne era orgoglioso) e perseguitò il professore, ma leggere Mike attraverso il cinema può essere interessante. Dopo il radiofonico Motivo in maschera (1954), in cui fa praticamente una versione se stesso, lo troviamo nella commedia Ragazze d’oggi di Luigi Zampa (1955): non è in capo ai titoli di testi ma ha una piazza d’onore, preceduto da un “con” e prima delle partecipazioni di Paolo Stoppa e l’allora nota Billa Billa. Ci crede così tanto che non si fa doppiare, cosa affatto scontata, e, trentenne impacciato e legnosetto, interpreta un “giovane amoroso”, spasimante di Marisa Allasio, sex symbol in ascesa poco prima dell’esplosione di Poveri ma belli. Nello stesso anno è un ufficiale di Marina nel bellico in Cinemascope Il prezzo della gloria di Antonio Musu: le star sono Gabriele Ferzetti ed Eleonora Rossi Drago, il suo è il quarto nome in ditta dopo Pierre Cressoy, ma la voce è quella del navigato doppiatore Stefano Sibaldi (Frank Sinatra e Glenn Ford) e, diciamolo, al di là della curiosità non è esattamente memorabile.
Eppure il nostro persevera: rieccolo nella modesta commedia I miliardari di Guido Malatesta (1956), dove fa il pittore e recita accanto a Matteo Spinola, destinato a diventare mitologico ufficio stampa con Enrico Lucherini e poi per Reteitalia, la casa di produzione cinematografica e televisiva della Fininvest (ironico, no?). Ma il 1956 è l’anno di Lascia o raddoppia?, la consacrazione definitiva del divo: quale miglior occasione per suggellare il successo se non un film con Totò? E la commedia è, a suo modo, molto istruttiva e cruciale, con il Principe sollazzato dalla novità e il presentatore finalmente ironico.
Da qui in poi, Mike torna al cinema facendo Mike, anche quando si tratta di una carnevalata western come La vita, a volte, è molto dura, vero Provvidenza? di Giulio Pretoni (1971), in cui il colonnello e criminologo Mike Goodmorning inscena una specie di Rischiatutto per accertare l’identità del protagonista. Ma anche le altre apparizioni sono bizzarre, segno che si prestava alla causa purché avesse un’allure cinematografica: spunta nel pazzesco cast de Il giudizio universale di Vittorio De Sica (1961); deve ringiovanire di quasi vent’anni per C’eravamo tanto amati (1974), il capolavoro di Ettore Scola dove conduce Lascia o raddoppia? e vede perdere l’ideologico Stefano Satta Flores; entra nei Sogni mostruosamente proibiti di Neri Parenti (1982) e sottopone domande impossibili al povero Paolo Villaggio.
All’attivo anche una casa di produzione, la Bongiorno Productions, fondata con moglie e figli, e gli spot per una nota compagnia telefonica accanto al devoto Fiorello. In arrivo, una miniserie biografica per la Rai diretta da Giuseppe Bonito, con Elia Nuzzolo e Claudio Gioè a dar vita al re della televisione. Si chiamerà Allegria!, come il suo indimenticabile saluto, e l’allegria latita nell’invisibile Loro di Paolo Sorrentino (2018), dove l’ultimo, struggente incontro tra uno smarrito Mike (Ugo Pagliai) e il cinico Silvio (Toni Servillo) è una pietra tombale su un’amicizia e, per emanazione, su una certa idea di mondo. Quel Mike, amareggiato, deluso e contrariato, che abbiamo visto nel salottino di Fabio Fazio (uno che, per inciso, è meno “accomodante” di quanto si voglia credere), tra le immagini terminali di un uomo che ha inventato la televisione e conosceva le regole dello spettacolo.