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Lemohang Jeremiah Mosese
Chi conosce il Lesotho? Indipendente da quasi sessant’anni dopo essere stata colonia della corona britannica, è una piccola enclave della Repubblica del Sudafrica (unico territorio al mondo circondato da un altro solo Stato come la Città del Vaticano e San Marino), non ha sbocchi sul mare e non se la passa benissimo: vanta il triste record del più alto tasso di incidenza della tubercolosi del mondo ed è al secondo posto nella prevalenza dell’HIV, l’aspettativa di vita supera di poco i cinquant’anni e si vive con circa un dollaro al giorno.
Da lì arriva Lemohang Jeremiah Mosese, classe 1980, nato e cresciuto a Hlotse. Che, sin da bambino, trova nell’arte un’occasione di salvezza, dallo “svezzamento” a b-movie in una piccola sala abbandonata alle poesie composte nell’adolescenza. Nonostante le difficoltà finanziarie, fonda insieme a un amico una società di produzione, la Vision 12, e, nel 2007, realizza il suo primo lungometraggio: Khapha tsa Mali, ovvero Tears of Blood, un esordio che Mosese rinnega in quanto esempio di “cattivo cinema” (il ripudio è tale che il titolo non viene menzionato nelle sue filmografie ufficiali).
Lontano da quel Lesotho sempre centrale nei suoi racconti, si fa un nome con l’installazione artistica Loss of Innocence (2008), prima parte di una trilogia completata da due cortometraggi, Mosonngoa (2014) e Behemoth (2016). Il primo short è un racconto incentrato su una ragazza che sfida la società patriarcale: il titolo va tradotto come “la derisa”, il che spiega molto di questa parabola femminista che non rinuncia a evocare un certo titanismo nel descrivere l’audacia di una figura ai margini della società. Il secondo, invece, vede un predicatore che, per le strade della capitale del Lesotho, trascina una misteriosa bara il cui contenuto suscita reazioni inaspettate nei passanti.


This Is Not a Burial, It’s a Resurrection
Sono due preamboli al debutto lungo di Mosese, il documentario Mother, I Am Suffocating. This Is My Last Film About You (2019), un saggio che esplora il lutto della madrepatria attraverso una lettera d’addio alla madre: il personale è politico, il transito da una realtà all’altra si riverbera in un suggestivo flusso di immagini, attraverso un bianco e nero straniante e una voce fuori campo che sa di non poter essere ascoltata da coloro a cui si rivolge. Quasi fosse un ulteriore prefazione a una poetica ancora in fieri, Mosese mette in campo quello che diventerà il suo repertorio di riferimento, fatto di immagini che nel corporeo trovano il sacro e viceversa (una donna che trascina una croce di legno, un gregge di pecore, una specie di angelo) e paesaggi densi di elementi mistici (l’Africa privata dell’esotismo estetizzante). Ma anche una visione autonoma e originale sul tema della migrazione, dall’osservatorio berlinese dove il regista ha messo radici dopo aver lasciato la terra natia.
trascendere il reale
Sempre nel 2019, This Is Not a Burial, It’s a Resurrection è l’opera prima di finzione che certifica e conferma un processo creativo di straordinaria vitalità (ha vinto il Visionary Filmmaking Jury Award al Sundance ed è stato selezionato in concorso al Tertio Millennio Film Fest nel 2021). È una storia che sembra avere poco a che fare con questa terra e con le sue regole, i suoi limiti, la sua misura. C’è già tutto nel titolo: non è una sepoltura, è una resurrezione. È una sfida al pubblico (occidentale) e alle sue aspettative. Più che un dialogo, Mosese offre la possibilità di una prospettiva alternativa alle nostre certezze: abbracciare il mistero dell’indicibile esplorando il mondo che si staglia tra il reale e l’invisibile.
Lo fa raccontando la storia di una donna ribelle, Mantoa, un’ottantenne che non ha più niente al mondo – letteralmente – se non la speranza. Che ha in sé l’ostinazione della resistenza, la necessità della resilienza. Ha perso il figlio, vittima di un incidente in miniera, e ha perso la voglia di vivere. Anzi: non ne sente più l’urgenza. C’è una componente mitica perfino struggente nella sua opposizione al potere costituito, che ha deciso di costruire una diga dove lei intende riposare per sempre. La nuova infrastruttura, infatti, sarà eretta nel luogo in cui sorge il cimitero del villaggio. Per Mantoa è l’ultima battaglia: non ha più nulla da perdere ma rivendica come suo unico orizzonte quello spazio che accoglie i morti della sua famiglia. La sua forza sta qui: ha un progetto che vale una vita, che la travalica e la sublima.
Un racconto che trascende la realtà, incrocia l’attualità, si colloca in una terra di confine tra la modernità e la natura, le tradizioni e il materialismo, la magia e la spiritualità, la vita e la morte. Si parla di un singolo per tessere una narrazione collettiva: quante comunità dovranno rinunciare a se stesse in nome del progresso, relegate all’oblio per annullare un passato inconciliabile con il futuro?


Ancestral Visions of the Future
sradicamento e appartenenza
All’ultima Berlinale, nella variegata sezione Special, Moses ha portato Ancestral Visions of the Future, titolo ancora una volta eloquente per un altro esemplare spiazzante della sua saggistica poetica, un memoir fluido e non lineare che riflette sui concetti di sradicamento e appartenenza intrecciando approccio contemplativo, riflessione politica, cimento autobiografico.
Al centro della scena, il Burattinaio, un uomo che coltiva quelle erbe che prolungano la durata della vita, così da concedere all’umanità il tempo per la redenzione. E poi la Venditrice del Mercato, una madre che mantiene viva la lingua dei sogni. Sono figure emblematiche, che affiorano da un contesto primigenio, e interrogano il privato di un autore in esilio, tornando all’infanzia per strada e ai ricordi familiari. Ma è soprattutto un complesso e tormentato lavoro di ricerca e costruzione su un lessico inedito, alla ricerca di immagini perdute e verso una lingua che appartenga davvero a quell’orizzonte, per resistere alla scomparsa della memoria: l’affascinante voce fuori campo anela una cattedratica autorità, il sound design e la musica di Diego Noguera puntellano il senso di inquietudine e l’azione si disincarna in qualcosa di potentemente allegorico.