La porta d'ingresso si aprì e Tommy apparve alle spalle di sua madre: “Mamma, c'è una telefonata per te”. La mamma di Tommy si alzò e si voltò. Il tubo da giardino nella sua mano destra spruzzava acqua. “Chi è?” chiese. “Non lo so. È un uomo. Ha detto che avresti saputo di cosa si tratta”. La mamma di Tommy rimase immobile per un momento, e Tommy vide rughe di preoccupazione attraversarle il viso. Qualcos'altro si insinuò nella consapevolezza di Tommy: vide che il cielo era notevolmente più scuro del solito, e vide un enorme bagliore rosso-arancio muoversi all'orizzonte. Proprio in quel momento, un uomo apparve correndo freneticamente per strada. L'uomo gridava: “Il fuoco sta arrivando! Il fuoco sta arrivando! Il fuoco sta arrivando! Il fuoco sta arrivando! Il fuoco sta arrivando! Il fuoco sta arrivando!”.
Flying Lotus feat. David Lynch, Fire is coming

E il fuoco è arrivato, David. Faremmo probabilmente un torto enorme a David Lynch a rabbuiarci per la sua dipartita: se c’è, infatti, qualcosa che l’autore ci ha ripetuto di film in film, di episodio in episodio di Twin Peaks, di conferenza in conferenza per la sua Foundation di meditazione trascendentale, di video in video su YouTube (tra cui le leggendarie previsioni del tempo quotidiane), di installazione in installazione (come la thinking room ospitata dall’ultimo Salone del Mobile di Milano nel 2024), di canzone in canzone per i suoi album da musicista, è che questa dimensione terrena è solo uno dei livelli possibili dell’esistenza (o del pensiero, c’è chi direbbe dell’anima).

Come tutti i magus, David Lynch può solo trasmigrare, e quindi tutto quello che diremo sull’artista cercherà qui di non essere ammantato dal tono triste e compìto del necrologio, forti della consapevolezza che Lynch, come di frequente accade ai suoi personaggi, aleggi ancora su di noi, tra le nostre e le sue immagini, nell’inconscio collettivo e in quello personale di ognuno. La domanda, dal tono metafisico e in accordo con quel costante senso di evento imminente che accompagna qualsiasi storia dell’autore, deve allora essere questa: dove si trova, oggi, David Lynch?

Non è un quesito troppo distante da quello che si pone Monica Bellucci nel celebre sogno narrato nella terza stagione di Twin Peaks: siamo come il sognatore che sogna e resta a vivere nel sogno – ma chi è il sognatore? Si tratta del mistero fondativo del Lynch-pensiero: “per me il mistero è come una calamita”, ha detto una volta lo stesso regista a Chris Rodley, in una delle interviste contenute nel preziosissimo volume Io vedo me stesso.

“Ovunque ci sia qualcosa di ignoto si sviluppa sempre una grande attrazione. Se ci si trovasse in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si avrebbe la forte tentazione di precipitarsi giù da quelle scale. Se si ha una visione parziale l’impatto è più forte che non di fronte a un quadro completo della situazione. L’intero può avere una logica, ma il frammento, tolto dal suo contesto, assume un eccezionale valore di astrazione. Può diventare un’ossessione”.

Isabella Rossellini e David Lynch sul set di Velluto blu (1986)
Isabella Rossellini e David Lynch sul set di Velluto blu (1986)

Isabella Rossellini e David Lynch sul set di Velluto blu (1986)

Ecco, questa dell’ossessione per il frammento è una delle grandi lezioni lynchiane – non esiste, ne siamo sicuri, appassionato che non abbia almeno una sequenza, un fotogramma, un’immagine subliminale di Velluto Blu, Strade Perdute, Mulholland Drive o INLAND EMPIRE che lo abbia perseguitato, marchiato, braccato per decenni, e che puntualmente ritorna a fargli visita impressa subito sotto le palpebre, quando chiudiamo gli occhi anche solo per un istante: è la tentazione di precipitarsi giù dalle scale, per dirla di nuovo con Lynch, tanto che le decine di ricordi e commiati che stanno uscendo già in queste ore si potrebbero, volendo, sostituire interamente con segnalazioni di frammenti, un nano che balla, un primissimo piano distorto di Laura Dern, un orecchio mozzato in mezzo all’erba di un prato, una canzone di David Bowie, una sit-com di conigli… come già va accadendo nelle nostre chat, nei messaggi che ci siamo scambiati per tutta questa notte di luna piena con Marte in opposizione (è stato un caso?).

Come ebbe a scrivere enrico ghezzi su Cuore Selvaggio, “le immagini (senza bisogno di essere citazioni ‘alte’) sembrano già fatte di sagome ritagliate da altre immagini (cartoline, arazzi, altri film, recessi cerebrali) e poi perfettamente riincollate, intarsiate. Il mondo si tiene, ma è ‘costretto’ a tenersi, perché già in frantumi, solcato di crepe, riappicciato.” Questa raccolta infinita di dettagli, di indizi ritornanti e piste d’indagine, da buon detective David Lynch l’ha portata avanti e seminata per tutta la sua produzione, dai video sul suo canale in cui inquadra gli insetti (si veda per esempio The story of a small bug su YouTube) alla produzione artistica, fino agli exploit musicali (oltre all’ultimo Cellophane Memories con Chrysta Bell, segnaliamo quantomeno il disco in duo con Angelo Badalamenti, Thought Gang), o alle regie brevi tipo l’irresistibile corto What did Jack do su Netflix.

Qualcuno potrebbe obiettare che, nel nostro presente già totalmente vessato da narrazioni spezzate, cercare David Lynch nei frammenti (dove già si è sedimentato da tempo, e vive e prolifica tra i meme e le GIF) possa sembrare l’ennesima concessione alla schizofrenia del contemporaneo: ma alla domanda “dov’è David Lynch?” non possiamo che rispondere che si trovi ovunque, nei corridoi bui di certe case troppo grandi, in alcuni ricordi strani che ogni tanto ci balenano in testa e dentro i quali non abbiamo alcuna voglia di ritornare, nelle foto appese alle pareti, in quello che si intravede dietro la porta dell’appartamento dei vicini un istante prima che se la chiudano alle spalle…

Strade perdute di David Lynch
Strade perdute di David Lynch

Strade perdute di David Lynch

Soprattutto, come ogni alchimista, ogni erudito, ogni ipsissimus, David Lynch ci lascia un’indicazione forte sul portare avanti la propria ricerca solitaria, la propria ossessione eremitica, la propria investigazione personale ogni giorno, instancabilmente, su qualsiasi oggetto d’intervento gli capitasse tra le mani, sia stato esso uno dei suoi titoli più alti, o l’ennesima stramberia d’artista a metà tra l’intuizione geniale e la sorniona boutade.

In un’epoca come la nostra in cui i giovani autori sembrano costantemente attenti alla forma, impegnati nell’inseguire la quadratura del cerchio, la chiusura perfetta alle proprie opere scolpite, l’esempio di un regista capace di far scintillare il cinema anche soltanto enunciandolo (come nelle sue apparizioni sul web o nell’orizzonte dei Fabelmans) rimane un modello abbacinante, vertiginoso, di approccio quotidiano alle pratiche dell’arte.

In tutto quello che ha creato, David Lynch sembra aver voluto costantemente mettere alla prova la celebre massima di Carmelo Bene, quella per cui “basta con il produrre dei capolavori, bisogna essere dei capolavori. […] L’arte deve solamente superare sé stessa, ecco perché tocca a noi, una volta fuori di noi, di essere un capolavoro. […] Non posso dare appuntamenti con il reale, appuntamenti con l’ovvio, con il razionale. Il buio: spegniamo le luci”.