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Alberto Sordi in Nell'anno del Signore
Esaminando i 145 film in cui Sordi ha recitato (non 190 come si è detto e ripetuto in questi ultimi tempi: con Enrico Lancia abbiamo percorso e ripercorso gli elenchi e questa è la cifra che ne risulta) si trova una indubbia varietà di impersonificazioni varie, di mestieri disparati, di incarnazioni che svariano lungo rutti i gradini della scala sociale: ufficiali, avvocati, imprenditori ambiziosi ma falliti, commessi sprezzanti, e via svariando in una sorta di stralunato prontuario di arti e mestieri immaginati da un beffardo impiegato di una immaginaria Camera di Commercio.
Saltiamo a piè pari gli inizi, dall'esordio nel 1938 nella Principessa Tarakanova di Fedor Ozep e Mario Soldati, (Sordi si ricordava vagamente: aveva il ruolo di uno studente barbuto che andava al patibolo cantando “Elisabetta, Elisabetta”) a Mamma mia, che impressione! di Roberto Savarese (1951) film sfortunato negli esiti ma che segna in qualche modo il suo ingresso nel cinema italiano (suo il soggetto, sua la sceneggiatura con Zavattini e De Sica, sua, insieme allo stesso De Sica, la produzione). Con una sola eccezione estremamente significativa per chi ha conosciuto la sua complessa psicologia, ingannevolmente, e solo esteriormente, grottesco-parodistico-farsesca.
Alludo a I tre aquilotti di Mario Mattoli ( 1942) ove Sordi, a fianco dell’allora popolarissimo Leonardo Cortese e dell’anonimo Carlo Minello, è un accademista di Caserta – in quel tempo sede regalmente borbonica della scuola ufficiali della Regia Aeronautica – il quale può diventare pilota e partecipare ad atti di guerra. L’attore ventiduenne ha così la possibilità di indossare la divisa dell’Arma Azzurra, come si diceva all'epoca – ricca di una celebrità che andava da ltalo Balbo a Luciana Peverelli –abbandonandosi al gusto della celebrazione apparente e della parodia nascosta (o viceversa) così imporrante per lui nei rapporti con la società e con l’ufficialità (il soggetto del film è, tipicamente, di Tito Livio Mursino, anagramma di Vittorio Mussolini).
Invece nel film diretto da Savarese ma da lui immaginato e prodotto, Sordi propone la traduzione di una sua fortunata macchietta radiofonica, quella del boy scout impiccione e catastrofico a fin di bene, solo introduce un “mestiere” raro assai nel nostro cinema ma lo fa con una connotazione romanesca esplicita (si pensi alla declinazione capitolina delle parole
“compagnucci” e “parrocchietta”) che da quel momento diventerà una chiave di volta di tutte le sue presenze d’attore. In questo senso paradossalmente Sordi sarà poi più sottilmente romano di Fabrizi o di Montesano che pure lo sono “professionalmente” e, per così dire programmaticamente.
Da quel momento, per mezzo secolo, la manualistica di Sordi prevede una sottigliezza possibile: avvocato, spesso furbesco non di rado ammiccante e donnaiolo (Buonanotte... avvocato!, È arrivato l’accordatore), ma anche commissario di polizia, giovane ufficiale travolto dall’8 settembre, sfortunato imprenditore, romano a Milano afflitto da moglie ricchissima e in gambissima che lo chiama “Cretinetti” (Il vedovo).
È quasi impossibile nei limiti di una breve nota riepilogare la galleria dei mestieri. Ricordiamo i medici cinici e feroci (Il medico della mutua, Il prof. dott. Guido Tersilli…), il giornalaio di Il conte Max, il delinquentello orgogliosissimo della sua professione di Ladro lui, ladra lei, l’imprenditore edile del Il marito, il rigattiere di Fortunella, il dirigente mentitore e falsamente rigidissimo de Il moralista, il fruttarolo di Costa azzurra che farà il paio con l’episodio di vent'anni dopo Le vacanze intelligenti, il ragioniere di Vacanze d’inverno, il folle artigiano claudicante di Brevi amori a Palma di Majorca, il disoccupato che diventa Vigile, il sinistro trafficante di bambini in Il giudizio universale, il fantasioso e deluso rappresentante di pellicce in Il diavolo, l’insegnante elementare spinto dagli affari in Il maestro di Vigevano, le sue quattro apparizioni contrastanti in Il disco volante, il latin lover professionista e scrupoloso padre di famiglia in I tre volti, l’incredibile candidato annunciatore de I complessi, l’antiquario anglofilo di Fumo di Londra, e poi via via fino a poco tempo fa quando tutto è stato il contrario di tutto.
Anche prete, a volte, e spesso colpevole. A paradossale dimostrazione della sua belliana, capitolina dimestichezza con Santa Madre Chiesa, a cui, in realtà, era poi fedelissimo senza tentennamenti e con totale adesione temperata da ammiccamenti famigliari, da vero romano, un po’ Pasquino e un po’ guardia svizzera, e che se mai avrebbe voluto ferrigna e autorevole, come quando era chierichetto. “Si ricordi”, mi disse una volta, “Il Papa più grande è stato Pio XlI. E il cardinale migliore? Ottaviani”.
E un’altra volta, a tavola quando la sua fedele montatrice, Tatiana Casini gli disse: “Signor Sordi, lei che sullo schermo fa così bene il prete, perché non fa il Papa, qualche volta?", lui rispose secco “No, mai”. Poi si voltò verso di me e a bassa voce disse: “Al cinema no. Se mai, nella vita”. Ed era sincero.