"È una storia di molti, ma comincia con una persona. E la conoscevo”.

Nessuno come David Lynch ci ha fatto amare un film. Nessuno come David Lynch ci ha fatto non capire un film. In queste divergenze confliggenti, la sua imperitura grandezza.

David Lynch è stato il Rossellini del Neoirrealismo. Ostinato e contrario (a Hollywood), ha avuto un imperativo poetico categorico: "Mi spezzo ma non mi spiego". Non per tutti, ma per molti tutto.

Ad annunciarne il decesso, lo scorso 15 gennaio (è nato, il 20 gennaio del 1946, e morto Capricorno), la famiglia: “C’è un grande buco nel mondo ora che non è più con noi. Ma, direbbe lui, ‘Tenete d’occhio la ciambella e non il buco’”. Ciambella vuole, teniamo d’occhio pure Homer Simpson, che davanti a Twin Peaks è tutti noi: “Genialmitico! Non ho la minima idea di quello che sta succedendo”.

L’aggettivo, lynchano, a decretarne il successo alla stregua del suo mito Fellini, il montano – natali a Missoula, Montana - David ha costituito un unicum di gusto e sostanza: iconico e immaginifico, ha perfezionato con Velluto blu e la serie televisiva I segreti di Twin Peaks, Strade perdute e Mulholland Drive un percorso implacabile, irreplicabile e, appunto, inspiegabile, guadagnandosi incondizionato credito tra i cinefili.

Ibridando noir e surrealismo, horror e inquietudine, sperimentazione e stranezza, ha decostruito canoni e destrutturato generi, senza temere fallimenti (la sci-fi Dune), disdegnare intermezzi paciosi (Una storia vera) e trascurare divertissement meteo-situazionisti (Weather Reports).

Minato dall’enfisema polmonare, evacuato dalla casa losangelina minacciata dai roghi, è morto a 78 anni, è vivo nei film – e nel nostro immaginarlo, che ha nutrito di interrogazioni e punti interrogativi, pulsioni e ossessioni, da ultimo baluardo dell’impossibile qual era. Fuoco cammina con me!, Lynch incendiaci la vi(t)a.

Con appena dieci lungometraggi, da Eraserhead (1977) a Inland Empire (2006), passando per The Elephant Man e Cuore selvaggio, ha messo il ciuffo bianco e ribelle in testa al cinema pastorizzato, le visioni asfittiche, i film dei ragionieri e dei farisei: sporcandosi le mani, macchiandosi i desideri, ha fatto dell’audiovisivo esperienza fondamentale, valenza filosofica, turbativa d’asta subliminale, futuro a tentoni (nostri).

Se esistesse il catasto dei sogni, lo governerebbe - condonando a anarchia e utopia - lui, che meglio di altri ha fatto dell’onirico carta, ovvero filmografia, e territorio, ovvero (r)esistenza, avvolti nel Velluto blu: “In dreams, I walk with you. In dreams, I talk to you. In dreams, you're mine, all the time. Forever”.

Fatale di necessità, seminale di virtù, il suo cinema non ha smesso di innamorare, attaccato e, alla bisogna, fornicante con l’assoluto, fossero nani e ballerine, incubi e azzardi, simulazioni e disvelamenti. Ci ha richiamato post mortem all’occhio, e il suo era ineluttabilmente occhio di Lynch: selvaggio, di cuore, e predatore, di inedito e inaudito, fiero ed elegante, circospetto dinnanzi alla banalità, indomito davanti al destino. Che bestiaccia, Lynch.

Condannato, per manifesta superiorità, all’estinzione, votato, per difetto di democrazia, all’autocrazia, nel nome dell’idea. Perché mi aveva detto a Movie Mag su Rai Movie nel 2017: “Non si fa nulla senza un'idea, le idee sono una benedizione". Lynch sia lodato.