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Lando Buzzanca in La schiava io ce l'ho e tu no (Webphoto)
Lando Buzzanca (morto ieri a Roma all’età di 87 anni, dopo molte vicissitudini cliniche e familiari) è stato il Gian Maria Volonté della commedia sexy all’italiana. Praticamente coetanei, Volontè del 1933 e Buzzanca del ’35, condividevano la vocazione grottesca, la tendenza a deformare il volto in maschera, la consapevolezza di incarnare un tipo umano che ha a che fare con un orizzonte culturale e politico.
A differenza degli istrioni della generazione precedente, da Alberto Sordi a Marcello Mastroianni, Buzzanca e Volonté si sono allontanati dalle consuetudini della scuola neorealista per innestare l’osceno nel reale, bardando la rappresentazione del carattere nazionale di suggestioni barocche e amplificazioni stranianti. Naturalmente, al di là del talento e del posizionamento, tra i due ci sono differenze sostanziali: se l’ossessivo Volontè esplode nel mimetismo e trova nel cinema uno strumento di lotta politica e una possibilità di picconare il sistema, Buzzanca sembra del tutto ancillare allo status quo tanto da non compiere alcuno sforzo per mettere in scena la sua versione dell’uomo italiano.
Commediante più che comico, quindi plausibile come corpo erotico, Buzzanca è stato il protagonista di un cinema che si confrontava con la liberazione sessuale ma senza prenderne di petto lo spirito rivoluzionario. Conservativo e conservatore, Buzzanca ha mantenuto – se non proprio rivendicato – il ruolo del maschio meridionale dominante in un mondo attraversato da nuove consapevolezze femminili (e femministe). Tuttavia, per quanto facile, sarebbe ingeneroso ridurre Buzzanca alla reiterazione di uno stereotipo per certi versi oggi un po’ improponibile. Ci ha marciato, è vero, però è stato attore capace di finezze impreviste, versatilità mai del tutto sfruttate, con uno spirito da pochade più che da farsa.
Non a caso a battezzarlo fu Pietro Germi, un autore irregolare e imprevedibile, che nell’ultimo decennio della carriera ha realizzato satire corrosive sull’ossessione degli italiani per tutto ciò che riguarda il sesso. Germi ne intuisce subito la viltà meschina dietro la mascella guascona: in Divorzio all’italiana gli dà il ruolo del fidanzato della sorella di Mastroianni, al quale viene impedito di sposarla perché la sua famiglia è stata disonorata; in Sedotta e abbandonata dovrebbe essere l’assassino dell’uomo che ha disonorato Stefania Sandrelli, sua sorella, ma lui non ci pensa minimamente.
Nei primi anni Sessanta, questa creatura di Germi riesce a trovare spazi e ruoli che forse non gli sarebbero più capitati, dal figlio opportunista de I giorni contati di Elio Petri (prima che il regista incontrasse Volonté...) al goffo poliziotto integralista de La parmigiana di Antonio Pietrangeli fino al minatore di Senza sole né luna di Luciano Ricci. A svoltargli la carriera è Alberto Lattuada, che lo vuole protagonista di Don Giovanni in Sicilia, trovando in lui il perfetto interprete dello spirito di Vitaliano Brancati, il massimo rappresentante della megalomania e della faciloneria dei galli siculi.
Ed è curioso che Buzzanca sia stato scelto anche per un altro adattamento come Io e lui di Luciano Salce, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, in cui è uno sceneggiatore che parla con il suo pene. Quasi a voler sottolineare le possibilità spesso inespresse di questo attore “consumato” dal typecasting (titoli emblematici: Professione bigamo, Il vichingo venuto dal sud, La schiava io ce l’ho e tu no, Bello come un arcangelo, Il gatto mammone).
Non a caso Buzzanca è stato amato da un intellettuale come Pasquale Festa Campanile, uno che attraverso la commedia sessuale ha prodotto un corpus di opere magari non particolarmente indimenticabili ma indicative per capire le trasformazioni del costume italiano, in primis lo straordinario Il merlo maschio che, guarda un po’, è tratto da un racconto di Luciano Bianciardi. E a testimoniare l’affinità con scorretti e laterali, tocca ricordare sì la collaborazione con Marco Vicario nei campioni d’incassi Il prete sposato e Homo Eroticus ma soprattutto il lavoro con Lucio Fulci, con cui Buzzanca ha lavorato nel roboante e spudorato All’onorevole piacciono le donne, che scatenò le polemiche dei notabili democristiani.
In parallelo con Volonté, Buzzanca perde centralità alla fine degli anni Settanta, il decennio del quale sono stati, forse, i massimi rappresentanti, l’uno sul fronte dell’impegno e l’altro su quello del disimpegno. Se Volonté ha trovato, anche all’estero, occasioni rare ma preziose per continuare a colpire, Buzzanca si è relegato all’automitologia, ritrovando solo da settantenne una rinnovata vitalità (nonostante il dissidio con Roberto Benigni: avrebbe dovuto interpretare Mangiafuoco in Pinocchio, ma l’attore-regista non gli concesse la dicitura “e con” nei titoli di testa e il nostro lo mandò a quel paese).
D’altronde chi meglio di lui poteva incarnare il tirannico principe de I Vicerè, il film-fiction di Roberto Faenza per cui Buzzanca ha vinto un Globo d’Oro e mancato per un soffio il David di Donatello. Ed è curioso, ancora, che tra le ultime sortite della carriera ci siano una fiction, Mio figlio, in cui è un commissario alle prese con un figlio gay, e un film, Chi salverà le rose?, dove è il compagno di Carlo Delle Piane. Come a volerci dire che, insomma, quella maschera degli anni Settanta, forse, era più sfaccettata di quanto credessimo.