Il cinema ama il ring. La fisicità dello scontro e lo spazio circoscritto del combattimento facilitano la narrazione, che va oltre lo sport per raccontare trionfi e tormenti. Le storie legate alla boxe sanno di miseria, disagio, imbrogli, cadute. I protagonisti sono alla ricerca del riscatto attraverso i guantoni e spesso ne sono traditi. La vicinanza dei corpi fonde agonismo e umanità, mentre la rete di un campo da tennis o i cento metri di uno stadio rischiano di separarli. Il connubio tra la boxe e la macchina da presa non conosce crisi.

Sul grande schermo arriva Il giorno dell’incontro, opera prima di Jack Huston, nipote di tanto John, il maestro di Città amara del 1972, in cui un pugile decaduto e un giovane dotato inseguono il sogno di uscire dal ghetto in cui sono confinati. Il giorno dell’incontro ha una trama che ormai è diventata classica: la ricerca di una seconda opportunità da parte di un uomo che ha conosciuto la gloria e poi è finito dietro le sbarre.

Per Muhammad Ali: «Dentro a un ring, oppure fuori, non c’è nulla di sbagliato nell’andare al tappeto. È restare al tappeto senza rialzarsi che è sbagliato…». Il cinema ha iniziato a raccontarlo già nel 1895, con le riprese sul tetto del Madison Square Garden di alcuni minuti del match tra Young Griffo e Charles Barnett.

I primi a capirne le potenzialità comiche sono stati Chaplin e Buster Keaton. Non servono parole per far ridere, è sufficiente mettere uno smilzo contro un energumeno. Sono i tempi di Knockout (1914) e Charlot boxeur del 1915 (conosciuto anche come Charlot eroe del ring o The Champion), e di Buster Keaton con Io e la boxe (Battling Butler del1926).

È Hitchcock il primo ad analizzare la vena tragica del combattimento. Siamo nel 1927, e il maestro gira The Ring, la sfida con i guantoni di un marito contro l’uomo che gli ha portato via la moglie. Dagli anni Quaranta in poi il filone è un flusso inarrestabile, tra melodrammi, noir e biopic. Grandi registi e attori famosi si alternano in una lunga filmografia. Sono memorabili Humphrey Bogart che svela il marcio del sistema in Il colosso d’argilla (1956) per la regia di Mark Robson, e Paul Newman che nello stesso anno è protagonista in Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise, la storia di Rocky Graziano.

Dietro la macchina da presa troviamo cineasti come John Ford, che nel 1952 ha diretto John Wayne in Un uomo tranquillo, Martin Scorsese con Toro Scatenato (1980) sulla vita di Jake La Motta, con Robert De Niro e Joe Pesci, senza dimenticare Clint Eastwood con Million Dollar Baby (2004), o i pugni clandestini di David Fincher con Fight Club (1999).

Nell’immaginario collettivo cinema e boxe sono sinonimo delle saghe di Rocky Balboa e di Creed. In Rocky irrompe la politica: Stallone è il simbolo della rinascita della nazione promossa da Reagan. Nel quarto capitolo è lui a vincere la Guerra Fredda, sconfiggendo in Russia l’imbattibile Ivan Drago.

Per chi scrive, Stasera ho vinto anch’io di Robert Wise, del 1949, è il titolo più importante sul pugilato. Un boxeur sul viale del tramonto, col volto di Robert Ryan, combatte per l’ultima volta, rifiutandosi di vendere l’incontro. La vicenda è raccontata in “tempo reale”. La narrazione inizia alle 21:05 e si conclude alle 22:17, rispettando i 72 minuti che corrispondono alla durata del film. Un capolavoro, come forse oggi non se ne fanno più.