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Giuliano Montaldo @webphoto
Con l’espressione “Trilogia del potere” si fa riferimento a un trittico di opere realizzate da Giuliano Montaldo – scomparso lo scorso 6 settembre - in poco più di un triennio, dal 1970 al 1973: Gott mit uns (1970), sul potere militare; Sacco e Vanzetti (1971), sul potere giudiziario; Giordano Bruno (1973), sul potere religioso.
Questa categorizzazione, di cui ignoriamo l’autore, non è mai piaciuta troppo al regista genovese, che spesso nelle sue interviste ha preferito parlare di “Trilogia dell’intolleranza”. È una puntualizzazione su cui val la pena soffermarsi perché mentre il Potere finisce in un modo o nell’altro per precisarsi attraverso una sua configurazione storica e richiede di essere identificato da un’ulteriore aggettivazione (potere politico, militare, religioso, giudiziario, ecc..), l’intolleranza sfugge, è più fluida, incorporea, può riguardare tanto il singolo quanto la collettività, il gruppo e l’istituzione, attraversa la storia senza circoscriverne un momento esatto. L’intolleranza è un seme piantato nell’anima del mondo. Il suo frutto è la violenza. Indubbiamente parliamo di concetti – Potere, Intolleranza, Violenza – spesso giustapposti, e nei film del trittico, e nella loro vicenda storica. Tuttavia, la precisazione di Montaldo serve a correggere il tiro della critica, spostando il focus dalla dimensione politica a quella etico-morale.
La cornice ambientale in cui germinano le idee della trilogia è mossa d’altra parte da fibrillazioni spaventose, tragiche, in un’Italia lacerata da violente contrapposizioni e da fazioni in lotta per la conquista e la difesa - anche violenta - dell’egemonia. Una stagione plumbea, la cui temperie ideologica finirà per condizionare tanto la concezione quanto la ricezione dei film. Se la scelta di un cinema d’impegno civile contiene già il rischio calcolato di una sovrapposizione tra vicende storicamente lontane e gli anni ’70, le letture politiche in voga allora finivano per mistificare il lavoro critico propendendo per una visione o per un’altra, in base agli schieramenti di partenza. Cinquant’anni dopo, cogliendo l’opportunità di un lavoro di retrospettiva avulso dalle questioni e dalla posta in palio di allora, si può serenamente ricollocare il tentativo di Montaldo nelle maglie di un cinema solidamente popolare, all’interno del quale emergono elementi di dissenso e di resistenza, anticorpi di un umanesimo idealistico e democratico. Senza che questo passi da un’analisi dialettica degli ingranaggi che permettono al Potere di perpetuarsi. Montaldo preferisce anteporre la forza della passione civile all’analisi delle condizioni storiche e materiali, ovvero privilegia gli uomini e il loro anelito al bene (e alla libertà) invece di sezionare le fredde macchinazioni di sistemi storicamente individuati, allergici agli elementi di critica. Al cuore di queste pellicole non troviamo l’evento del passato né – se non indirettamente – le forme storiche del Potere, ma l’eterno disaccordo tra l’Ideale e il Reale, tra una supposta propensione al Bene e la sua inattuabilità storica.
Questo, al cospetto di una critica marxista mai particolarmente tenera con il regista (che pure da quella cultura proviene), scagiona Montaldo dall’accusa di avere annacquato l’analisi politica per inseguire il pubblico e le regole dello spettacolo. Per Montaldo il cinema resta uno strumento di edificazione (culturale, morale) che non può mai perdere la sua natura affabulatrice, l’abilità che gli consente di entrare in connessione con lo spettatore, e non un mezzo eterodosso di filosofia materialista.
Quello a cui la Trilogia dà voce non è nemmeno un conflitto, ma il lamento per un’umanità incapace, storicamente, almeno nelle diverse vicende che questi tre casi richiamano, di realizzare pienamente sé stessa nella solidarietà (Gott mit uns), nella giustizia (Sacco e Vanzetti) e nella verità (Giordano Bruno). “Gott mit uns” era il motto cucito sulle fibbie dei cinturoni della Wehrmacht: “Dio è con noi”. È una delle tante incongruenze che popolano il cinema di Montaldo, laddove si registra quasi sempre un ribaltamento tra il discorso e il suo contenuto, tra il simbolo e il significato. Il Dio a cui fa riferimento non è il Signore giusto dei monoteismi né la Totalità abbacinante delle religioni orientali ma un dio appannaggio di alcuni contro altri, un dio della guerra. Analogamente quell’ “In God We Trust” che campeggia nelle monete e nei tribunali americani sembra farsi beffe del destino di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, vittime sacrificali di una giustizia ingiusta. Per non dire della punizione inflitta all’eretico Giordano Bruno, mandato al rogo per la libera ricerca della verità proprio da quella Chiesa che ha fatto dell’amore per il nemico il cardine della sua Verità annunciata.
Ma i tre film si rispecchiano anche per il ricorso alla figura della vittima sacrificale, apparentemente spogliata dai suoi elementi mitico-religiosi ma in definitiva ricondotta alla logica girardiana del capro espiatorio, la cui uccisione è necessaria al ristabilimento dell´ordine e dell´armonia, Quello che interessa a Montaldo e ai suoi sceneggiatori, nella riproposizione di tre vicende così slegate eppure così affini, è denunciare l’impostura, la verità persecutoria del meccanismo del capro espiatorio: la vittima è innocente, la violenza non è giustificata perché non viene da Dio. La logica sacrificale salta, lasciandoci davanti a noi stessi e alle nostre responsabilità. Ed è interessante – ed è il terzo elemento di connessione tra i tre film – che questo smascheramento avvenga attraverso l’istituzione di un “processo”: forma concepita dal garantismo umanista, il processo viene utilizzato come strumento di giustificazione della violenza, un’aberrazione che nella trilogia di Montaldo viene rappresentata per quel che è.
E a proposito di ricorrenza, si impone un altro aspetto spesso trascurato nella lettura della Trilogia sul Potere – o sulle vittime del Potere - di Montaldo: l’astrazione. Si è spesso sottolineato l’interesse del regista genovese per la Storia, la vocazione a fare del dispositivo cinematografico una macchina del tempo capace di riconnetterci con il passato, ricreato ogni volta con precisione cronachistica e scenografica (al di là di una certa predilezione per gli anni del fascismo e della resistenza, eventi che Montaldo sente anche biograficamente più vicini). Eppure, ed è un dato assai interessante, la rievocazione non si impone mai come urgenza primaria sulla rappresentazione, ma rimane una cornice, per quanto filologicamente accurata e ricca di particolari. La realtà storica e le sue condizioni non producono il contenuto delle vicende rievocate ma gli offrono un rivestimento che non ne cambia la sostanza. Il particolare è una forma di attualizzazione dell’universale, del quale si ripresentano, immutati, caratteri e dinamiche. Del resto quando ci riferiamo a Gott Mit Uns raramente ne parliamo come di un film sulla follia della guerra ma sul militarismo; mentre le parole autoritarismo e razzismo sono state sovente utilizzate a proposito di Sacco e Vanzetti; così come Giordano Bruno è un’opera che denuncia il fondamentalismo religioso, non certo il Medioevo e la sua deriva oscurantista. Detto altrimenti, il contenuto del film ha a che fare con concetti universali, a loro volta riconducibili a categorie più generali, come quelle del potere o, meglio ancora, dell’intolleranza.
Il carattere di astrazione di queste vicende, che pure sono tratte da fatti realmente accaduti, restituisce alla trilogia la dimensione della parabola, in cui il messaggio sotteso è più importante delle determinazioni con cui viaggia. Il fatto rappresentato rimanda, prima ancora che a un evento documentabile, al suo significato essenziale. E qual è la struttura narrativa più indicata per operare quell’astrazione dal discorso che abbiamo rilevato fin qui? È ovvio: il genere. Montaldo è stato spesso rimproverato di aver contaminato la purezza del cinema d’autore con il ricorso a moduli rappresentativi più canonici, fruibili, di derivazione americana. Un pregiudizio figlio anche del suo tempo, di quella forte contrapposizione ideologica tra cinema politico e cinema di consumo. Al contrario Montaldo, nel rivendicare un’idea di spettacolo cinematografico non asservita semplicemente al mantra dell’evasione, rinviene nel genere il metodo e la composizione di una poetica chiara, il cui richiamo ai problemi di carattere universale e all’urgenza della loro diffusione trova nei temi, nelle tipologie e nelle convenzioni narrative l’alleato ideale. Un cinema dalla parte del pubblico, non che parte dal pubblico. Non bisogna mai dimenticare la connessione profonda in Montaldo tra cultura e comunità, un addentellato che segna tanto l’esperienza artistica del cineasta genovese quanto quella biografica, con la convinta adesione alla Resistenza (che pure visse giovanissimo) e alla sua idea di rifondazione collettiva contro l’oppressione.
Questo moto umanissimo di reazione all’ingiustizia ha sempre avuto nei suoi film un nitore inoppugnabile, una chiarezza commovente e una concretezza tangibile. Giustizia e ingiustizia battagliano ma non sono sullo stesso piano. Solo le vittime hanno spessore drammaturgico, consistenza umana. La loro controparte, che si tratti di un ufficiale tedesco (Gott Mit Uns), di un procuratore (Sacco e Vanzetti) o di un inquisitore (Giordano Bruno), non hanno profondità psicologica, sono poco più che burattini, maschere prestate a una forza di sopraffazione universale, impersonale, che agisce attraverso la coartazione di figure senza qualità. A segnalare dunque non un limite di caratterizzazione e scrittura, come da alcune parti si è lamentato, ma una scelta di coerenza nell’architettura valoriale del lavoro di Montaldo. Un cinema, il suo, che ha sempre inteso l’impegno in modo felicemente inattuale e libero dai condizionamenti politici, come lezione di pedagogia della Storia su cui tutti, spettori di oggi e di domani, continuiamo a essere interrogati.