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Ivano Marescotti (foto di Karen Di Paola)
Ivano Marescotti è un dipendente del comune di Ravenna, inquadrato nell’ufficio urbanistica, quando, un bel giorno, all’inizio degli anni Ottanta, si licenzia. Ha trentacinque anni, molla tutto e comincia a fare teatro. E che teatro: solo in quel decennio viene diretto da Giorgio Albertazzi, Carlo Cecchi, Mario Martone, Leo De Berardinis, Luigi Cozzi, Giuseppe Cederna. Marescotti (morto ieri, 26 marzo, all’età di 77 anni dopo una lunga malattia) è già tutto qui: un animale da palco che salta dal teatro borghese dei mostri sacri a quello di ricerca dei giovani rampanti passando per l’avanguardia dei sovversivi. Lo fa con disinvoltura, versatilità, entusiasmo. Pure ignorandone il passato, di Marescotti si percepiva comunque la vita che c’era stata prima. Anche nei ruoli “giovanili”, non si riusciva a dargli un’età, non solo per la precoce calvizie e lo sguardo profondo.
Nel magnifico L’aria serena dell’ovest, il suo primo ruolo importante (nonché esordio nel lungo di Silvio Soldini e, parere personale, suo capo d’opera), c’è il manifesto di un personaggio che trova nel volto, nella voce, nei ghigni di Marescotti la maschera ideale: quarantenne che porta gli anni con stanchezza, settentrionale impiantato nel territorio elettivo (la Romagna di cui fu cantore fino all’ultimo) eppure capace di rappresentare anche le zone limitrofe, borghese che sembra sempre sul punto di perdere la pazienza ma si ferma un attimo prima e incassa, provinciale finito in città che ogni tanto si abbandona alla nostalgia delle piccole cose.
Un burbero che, a seconda delle lune e delle circostanze, può risolverla con un sorrisetto beffardo o montare un casino per un nonnulla. È proprio qui, in questa grigia commedia umana sul negativo della Milano da bere, che si sente benissimo quella vita di prima, un tirocinio che non ha a che fare con l’accademia ma con l’esperienza.
Anche nelle rare occasioni in cui è protagonista, Marescotti resta orgogliosamente un corpo scontornato dal quotidiano, una faccia che si imprime nella memoria. In definitiva un caratterista, uno dei migliori del cinema italiano degli ultimi trent’anni, che come altri caratteristi diventa attore tardi, quasi per caso. I casi sono tanti: Bombolo vendeva piatti e stoviglie, Angelo Bernabucci ha fatto il libraio fino ai 45 anni, Guido Nicheli lavorava in uno studio dentistico e come rappresentante di liquori, Novello Novelli era geometra, Gigi Ballista fu uno dei primi impegnati nel marketing cinematografico, Guido Alberti guidava le aziende di famiglia.
Mai macchietta, Marescotti porta l’approccio teatrale al cinema e si misura con qualsiasi genere. Prendete il 1991, anno in cui partecipa a sei film, l’uno diverso dall’altro: c’è il cinema corsaro di Luigi Faccini con Notte di stelle; c’è un esordio di ottimo impatto come Il caso Martello di Guido Chiesa; c’è la commedia civile con Il portaborse di Daniele Luchetti, in cui è un funzionario locale del partito (e Marescotti, cuore rosso, non ha mai nascosto l’impegno politico); il cinema d’inchiesta de Il muro di gomma di Marco Risi, in cui è lo scettico caporedattore del Corriere della Sera che dialoga via interfono con il direttore, presenza-assenza che ha la voce di Dino Risi; c’è un episodio d’autore, La neve sul fuoco di Marco Tullio Giordana, incluso nell’antologico La domenica specialmente tratto dai racconti di Tonino Guerra, dove fa il prete ed è affiancato da una debuttante di lusso, Maddalena Fellini; e c’è la commedia popolare con Johnny Stecchino di e con Roberto Benigni (che poi lo rivuole ne Il mostro), campione d’incassi che gli permette di entrare nell’immaginario grazie al ruolo del dottor Randazzo.
Uno, nessuno, centomila Marescotti, sempre lui perché capace di adattarsi al contesto e aderire allo spirito. E se registi periferici ed eccentrici gli servono occasioni d’oro, da Quattro figli unici di Fulvio Wetzl (tra le sue interpretazioni migliori) agli sbalestrati film di Sandro Baldoni, Strane storie e Consigli per gli acquisti, fino al corale Come si fa un Martini di Kiko Stella e senza dimenticare Carlo Mazzacurati, che ne fa espressione di una certa provincia ambigua (Vesna va veloce, La lingua del santo, La giusta distanza), il cinema più ricco e strutturato non si fa sfuggire una faccia del genere.
Antica e solenne, e così viene esaltata da Antoine Fuqua in King Arthur, eppure inquietante come si vede in Hannibal di Ridley Scott. Ma che sembra anche nata per incarnare l’ordine infastidito da folli sovversivi, prima Aldo, Giovanni e Giacomo ne La leggenda di Al, John e Jack e poi soprattutto le prime due sortite di Checco Zalone, Cado dalle nubi (leghista esasperato e schifato dall’ingombrante pugliese) e Che bella giornata (colonnello sull’orlo di una crisi di nervi), che gli valgono l’affetto del pubblico più largo.
Perfetto per la commedia (La vita facile, A casa tutti bene, perfino il tardivo cinepanettone Vacanze di Natale a Cortina), ottimo nella serialità (cavalca il typecasting del padrone cattivo nel nostalgico Raccontami, entra nell’immaginario di una generazione come professore belva de I liceali), sempre attivo sul palcoscenico, prima del ritiro riesce a farsi protagonista e lascia il segno (Bar Giuseppe di Giulio Base).