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Fireworks Wednesday di Asghar Farhadi (@ Webphoto)
Il cinema iraniano di autori, produttori e attori indipendenti, esterni al mainstream di regime, commedie, storici, crime, guerra, melodrammi, questo cinema iraniano a rischio di vita e punizioni (la galera in corso per Panahi e Rasoulof), costretto in buona parte all'esilio e alla produzione estera, porta i due principi della rivoluzione in corso, “la prima mobilitazione che non chiede nulla al regime, ma ne contesta le fondamenta” (Babak Payami): il Diritto e la Verità.
Questo cinema iraniano degli ultimi anni, e del 2022, e degli ultimi mesi viene da dire, traccia le immagini della materia di cui sono fatte sia la contraddizione sociale, politica e religiosa, le forme del diritto della persona, sia la complessità dell'evidenza, la fatica, il labirinto, per la Verità.
È, al limite del legale, e oltre, cinema di opposizione: alla pena di morte, alla censura religiosa, alla sottomissione delle donne nella esplicita dittatura del velo, alla punizione dei diversi orientamenti sessuali e di ogni rivendicata laicità. Certo, in queste ore di cortei e scontri, di arresti, torture, impiccagioni e sparizioni, di caccia alle “malvelate” per infliggere in realtà terrore esteso, forse il cinema passa vivo nei “verticali” dei cellullari puntati sulla polizia, sui cordoni di opposizione, gli striscioni, le ragazze a chioma libera, i manifestanti inseguiti e manganellati, immagini per la prima volta inviate in occidente via social e trasmesse dalle televisioni in tutto il mondo.
Ma, questo il punto, se pensiamo il recente cinema iraniano come onda implicita di denunce e pressioni, le cose si parlano: la vicenda del poliziotto cieco che protegge in casa una fuggiasca nel Mimesis di Vahid Jalilvand, visto a Venezia 79, parte da una guerriglia di piazza per il salario, forse un po' costruita per rifare Eisenstein o Kurosawa, capace però di fissare una rivolta in immagini proibite. Pensiamo all'analisi irresistibile di Il male non esiste (Orso d'Oro a Berlino) di Mohammad Rasouluf, già giudicato “propagandista contro il governo islamico”.
Nell'Iran congelato nel contrasto tra fede e giustizia, e tra giustizia e diritto alla vita, quattro episodi, quattro protagonisti, hanno un'intima e terribile relazione intorno al delitto di “pena di morte”, un percorso profondo perché proprio per ogni caso brilla in modo diverso una uguale necessità di risposta. Quanto a certi modelli formali del cinema iraniano, diciamo che Rasoulof, censurato e condannato più volte, mai distribuito nel suo Iran (anche nel caso della ossessiva ricerca di giustizia di Lerd), rispetto alla serrata "analisi logica" della realtà di Farhadi o Panahi ci porta nei momenti di sospensione e crisi dei personaggi, più caldo, meno matematico, di simile statura morale, incline a metafore visive aperte, che sia il muro opprimente di un istituto di pena o un'auto immobile al semaforo nella notte.
Tabestan Ba Omid (premiato a Karlovy Vary), seconda regia di Sadaf Faroughi, è una tragedia morale indispensabile a riconoscere le conseguenze di tabù sessuali e il diritto alla libertà nell'Iran, e nel mondo mussulmano, omofobico, nella storia d'amore tra un nuotatore e il suo allenatore, e lo fa con cautela e progressione (la dialettica tra costrizione/libertà e mare/casa diventa una location dell'intimità), con una notevole sapienza di composizione, a partire dalla mobilità interna dell'inquadratura. Per esempio: come si fugge da un incontro clandestino in una palestra? Film impossibile da girare in Iran (coproduzione canadese), come They, di Anahita Ghazvinizadeh dove uno squilibrio psico ormonale dall'infanzia del giovane J lo/la tiene in bilico, come segna ogni mattina su un foglio, tra B (boy, ragazzo) e G (girl, ragazza), mentre la fine di una terapia di sospensione avvicina la scelta. In famiglia tutti sono coinvolti da una transizione: i genitori in viaggio, la sorella per il lavoro, il fidanzato se tornare in Iran. Nel rischio costante di affrontare di petto temi e problemi.
Il cliente di Ashgar Farhadi ci aveva già messo nel cuore di diritto&verità, secondo un visibile concesso ma lambendo il proibito (il ritorno di Farhadi a Teheran), con gli indimenticabili Emad e Rama, un attore e un'attrice di una compagnia che sta provando Morte di un commesso viaggiatore, dunque impegnati alla disamina di contraddizioni di un mondo che cambia ed emargina. Insieme affrontano in modo diverso un oltraggio che scatena diverse reazioni d'onore e moralità, ma al fondo c'è la violenza sessuale subita da Rama che nega per evitare l'assurda emarginazione. La vendetta di Emad sul colpevole è raccontata in spietata, efficace e insieme esorbitante cronometria alla Haneke. È anche un film sulla perdita di sensibilità e perdono in un sistema religioso e sociale piombato.
Quel che non si dice e non vediamo di principi della dominazione maschile nell'integralismo e della violenza sulle donne nel film di Farhadi è invece esplicito nel film di Abbasi Holy Spider, prodotto e girato infatti in Danimarca dove risiede Abbasi che col suo serial-killer di prostitute ispirato da Dio per ripulire il mondo dalle donne indegne. Lasciando solo a citazione il cinema recente di Jafar Panahi, che con Gli orsi non esistono richiama la comunità rurale di pregiudizi, ingiustizia, divieti e ricatti di Tre volti, ma per farne uno specchio della manipolazione e del sotterfugio indispensabili per ribadire un cinema dei diritti e della verità, ricordiamo almeno quel World War III (vincitore in Orizzonti a Venezia) di Houman Seyedi che parte come melò di gente umile intorno a una indaffarata troupe e si muove verso un dramma della vendetta, spinto a prendere metafora di dittatura e violenza dal soggetto del film in produzione: un Hitler posticcio tra le camere a gas e l'eliminazione dei suoi traditori.