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Gabriele Mainetti e Xaxi Liu sul set di La città proibita - Foto Andrea Pirrello
“Il nostro cinema deve rialzare la testa e lo deve fare in sala, ridere o emozionarsi insieme ad altre persone è meraviglioso, anche se non credo che la televisione vada demonizzata. È bellissimo che tutto si intrecci e si influenzi, va bene il cinema e va bene la tv, ma se fai un film per il piccolo schermo devi ragionare diversamente”.
Gabriele Mainetti torna alla regia dopo Freaks Out (“un film importante, a cui voglio ancora molto bene”) e lo fa con La città proibita, opera che il regista stesso considera il suo “terzo atto d’amore nei confronti di Roma”. E che marca anche una discontinuità creativa e realizzativa rispetto ai suoi due lavori precedenti.


Gabriele Mainetti e Xaxi Liu sul set di La città proibita - Foto Andrea Pirrello
Dopo i due film scritti con Guaglianone, stavolta hai collaborato con Stefano Bises e Davide Serino.
In questo film a parte due o tre figure (come l’operatore di macchina Matteo Carlesimo o il montatore Francesco Di Stefano, ndr) è tutto nuovo per me, dal cast tecnico a quello artistico. Ma è una cosa che mi stimolava, perché sono convinto come dice Luca Guadagnino che quello che conta è avere una visione, uno sguardo. La voce deve rimanere la tua, poi ogni figura della troupe porta il suo contributo. Come Paolo Carnera, direttore della fotografia con cui lavoro per la prima volta, che fa un uso diverso delle luci rispetto a Michele D’Attanasio, o Stefano Bises che è rimasto da subito affascinato dell’idea che avevo sul film. È stato prezioso coinvolgerli perché confrontarsi con persone diverse credo non possa far altro che arricchire il proprio sguardo. Tant’è che con lui e Serino siamo già alla quarta stesura di un nuovo progetto.
Dopo i supereroi (Lo chiamavano Jeeg Robot) e il periodo nazifascista raccontato dal punto di vista di un gruppo di “diversi” (Freaks Out), ora ti misuri con il gongfupian (i film con Bruce Lee e Jackie Chan, per intendersi): quanto ti diverte giocare con l’immaginario collettivo?
Moltissimo. Quando studiavo Storia e Critica del Cinema ricordo che ci chiedevano se il cinema dovesse essere arte o intrattenimento: ho sempre pensato che dovesse essere artigianato capace di divertire. Ho studiato teatro, fatto la scuola americana, mia nonna era cresciuta nel New Jersey: recitare da quelle parti si dice “to play”, giocare. Mi piace sognare, ma anche scovare le parti più oscure dei vari personaggi che racconto. Il genere crea una forma, l’horror ad esempio non è una stronzata partorita così, con dei codici e basta. E se accedi al genere ricalcando solamente i codici ma non fai lo sforzo di comprenderne le sfumature più profonde, tu il genere non lo sai fare. Per questo ogni volta cerco di avvicinarmi con grande serietà a certi topoi appartenenti anche ad altre culture, tutelando, preservando e proteggendo il mio immaginario: erano i film che vedevo da ragazzino e poi però nella realtà frequentavo i rioni di Roma, come Testaccio, quello era il mio mondo reale, ma ci infilavo sprazzi di immaginazione che provenivano da altri mondi. La genialità ipercitazionista di Tarantino è una cosa, il mio tentativo è più rivolto a cercare di far funzionare certi mondi dentro il nostro.


Xaxi Liu in La città proibita - Foto Andrea Pirrello
“Raccontare storie impossibili con personaggi reali”, ti disse una volta Marco Manetti. Deve essere questo l’obiettivo allora?
Penso che fare cinema significhi questo. Cerco di raccontare qualcosa di straordinario calato in un contesto di normalità, ricordando sempre che lo spettatore cerca qualcosa di speciale dall’esperienza cinematografica: il mio concetto di speciale, di straordinario, è questo modo di giocare, ma credo anche che al cinema ti dovresti emozionare e i personaggi devono avere delle prossimità con chi li guarda. Devono dare allo spettatore la possibilità di immergersi, e per farlo entra in ballo il retaggio culturale del luogo dove si svolge la vicenda. Non bisogna perdere l’identità del posto che si sta raccontando, come nel caso di Jeeg, delinquente di Tor Bella Monaca: scopre di avere i superpoteri e la prima cosa che fa non è andare a salvare la comunità, ma va a sradicare un bancomat.
Il titolo inizialmente doveva essere Kung Fu all’amatriciana, ora invece si chiama come il film di Zhang Yimou del 2006. Nel tuo caso è sì il nome del ristorante cinese di piazza Vittorio, luogo centrale della vicenda, ma l’allusione evidente è alla città di Roma tutta.
Quello era il titolo d’appoggio, ma sapevo da subito che non si sarebbe chiamato così. La città proibita mi piace molto, non voglio dargli chissà quali significati, da una parte certamente c’è l’allusione al lato sommerso di una città come Roma ma anche il rimando alle proibizioni che danno il via al film, in Cina, con la legge sui figli unici. Poco fa mi ha chiamato Marco Müller, che aveva appena visto il film al mercato del Festival di Berlino, ed era entusiasta, su di giri, era stupito di come fossimo riusciti a restituire una visione nuova, originale, colorata di Roma e anche a non confondere il cantonese con il mandarino nei dialoghi.
“Da voi tutto è permesso e nulla è importante, da noi niente è permesso e tutto è importante”: è in questa frase che va ricercato il senso profondo del film nel tentativo di mettere a confronto le due culture, cinese e italiana?
C’è un rigore, una serietà e un valore che viene dato a determinate cose in Cina che da noi è ribaltato, è uno specchio che deforma la nostra cultura ma anche uno specchio nostro. Ma è vero pure che chi viene a Roma per conquistare dopo poco si accorge che questa città ti risucchia, ti fa diventare parte di lei. Per la terza volta ho fatto una lettera d’amore alla mia città, insistendo su questa dicotomia culturale che poi esplode in una storia d’amore: non a caso di solito chi finiamo per avere accanto è sempre qualcuno di distante da noi.


Xaxi Liu e Enrico Borello in La città proibita - Foto Andrea Pirrello
E come hai fatto ad accorciare questa distanza, tanto di linguaggio quanto nei canoni di un genere che qui da noi non ha mai avuto epigoni?
Già in Freaks Out avevo lavorato con Franz Rogowski, qui è stato un po’ più complicato perché Yaxi Liu parla solo cinese, oltre ad essere molto riservata, introversa, con una cultura marcatamente diversa. La cosa incredibile è che ci siamo trovati subito perché lei ha compreso immediatamente le sfumature del racconto. Ha una storia analoga a quella della protagonista, ha iniziato a studiare il kung fu all’età di 5 anni: ha capito che doveva prendere quello che aveva dentro e metterlo nel personaggio, un po’ come fece Ilenia Pastorelli in Lo chiamavano Jeeg Robot. Dal punto di vista delle coreografie action volevo che ogni combattimento fosse come una danza, senza spingermi però verso i lidi del wuxia perché per la nostra cultura sarebbe stato un po’ troppo.
DALLA CINA CON FURORE
Una sorella di troppo, nella Cina dove ancora vige la legge del figlio unico. Parte da qui La città proibita , il terzo lungometraggio di Gabriele Mainetti – scritto con Stefano Bises e Davide Serino – che Piper Film porterà nelle sale dal 13 marzo, con anteprime previste solamente l’8 marzo.
Ma La città proibita, a dispetto di quello che si può pensare dal prologo, non è il palazzo imperiale delle varie dinastie cinesi (come da titolo, omonimo, del celebre film di Zhang Yimou datato 2006): ormai giovane adulta, Mei (Yaxi Liu, al primo ruolo da protagonista dopo l’esperienza come controfigura nella versione live action di Mulan) arriva a Roma determinata a scoprire che fine abbia fatto l’amata sorella maggiore.


Xaxi Liu e Chunyu Shanshan in La città proibita - Foto Andrea Pirrello
Il primo approccio – devastante, nel senso che la ragazza non ci metterà molto a dare sfoggio delle sue incredibili doti da marzialista – sarà quello con la malavita cinese, capeggiata dal temibile Mr. Lang (Chunyu Shanshan) che gestisce i propri traffici dentro il ristorante che dà il titolo il film, ma vien da sé che il concetto di “città proibita” si estende a Roma tutta. Sì perché, capiremo poco dopo, il difficile equilibrio multietnico su cui poggia la quotidianità del rione Esquilino – piazza Vittorio stringendo maggiormente il quadrante – è retto dalla non facile coabitazione di due anime criminali, quella d’importazione e quella autoctona, nella persona, nelle parole e nelle gesta di un villain d’annata come Annibale (Marco Giallini). La base operativa di quest’ultimo è l’altro ristorante, “Da Alfredo”, forse l’ultimo rimasto lì in zona tra quelli “tipici”: peccato però che Alfredo (Luca Zingaretti) sia scappato chissà dove con l’amante, lasciando alla cassa la moglie Lorena (Sabrina Ferilli) e in cucina il figlio Marcello (Enrico Borello, ultimamente visto in Familia di Francesco Costabile, era il neonazi a capo del gruppo che inizia a frequentare il giovane protagonista), sommersi dai debiti.


Sabrina Ferilli e Marco Giallini in La città proibita - Foto Andrea Pirrello
Sarà l’improbabile incrocio tra quest’ultimo e Mei (il primo incontro non è dei più idilliaci, con lei che lo massacra di botte per farsi dire dove può trovare Alfredo…) ad indirizzare le traiettorie di un’avventura che si snoda nel sottobosco del ventre delinquenziale della capitale: per sopravvivere, dovranno lottare fianco a fianco (e il fatto che lei sia micidiale con il kung fu è un valore aggiunto non da poco) contro armate di criminali senza scrupoli, ma, soprattutto, contro radicati pregiudizi e diversità culturali.
E così, dopo aver attinto dall’immaginario dei supereroi (Lo chiamavano Jeeg Robot), passando poi per l’occupazione nazifascista riletta in maniera ucronica (Freaks Out), Mainetti guarda ora al gongfupian hongkonghese, calandolo però nell’attualità e nel caos di una città dove tradizione e immigrazione sono tuttora in cerca di un dialogo pacifico. E, perché no, romantico.