PHOTO
Gints Zilbalodis
A 17 anni gira il primo corto, Aqua, a 25 debutta nel lungo, Away, che racconta il viaggio di un ragazzo in una terra misteriosa e disabitata, realizzato quasi in completa autonomia (regia, produzione, musiche, scenografie, montaggio, fotografia), a 29 va a Cannes, in Un Certain Regard, con Flow. La parola a Gints Zilbalodis, l’astro nascente dell’animazione europea.
Come si è avvicinato al cinema?
“Volevo fare film sin da piccolo ma mi sentivo limitato con il live action. Così ho deciso di concentrarmi sull’animazione: ho più tempo per sperimentare, posso collocare le storie in qualsiasi ambiente. In Flow per esempio c’è molta acqua, i movimenti coreografici sono piuttosto complicati: un film del genere sarebbe impossibile dal vivo. E poi l’animazione, può essere compresa in tutto il mondo e da persone di età diverse. E invecchia meglio, è senza tempo”.
In un mondo che riduce l’indie a trend, lei è un autore davvero indipendente. E autodidatta.
“Non ho frequentato scuole di cinema, la mia formazione è stata sul campo. Credo sia il modo migliore per imparare a fare film, anche perché oggi gli strumenti sono molto più accessibili. Certo, ci vuole tempo per raggiungere la perfezione, ma è così importante per l’arte? Contano la creatività e le emozioni. E quando il budget è limitato, si può essere più flessibili, sperimentali e audaci”.
Qual è il metodo del suo lavoro?
“Quasi tutti i film d’animazione sono realizzati utilizzando storyboard disegnati a mano: io, invece, lavoro direttamente in 3D. Prima creo una versione semplice dell’ambiente, poi inserisco i personaggi all’interno e uso una fotocamera virtuale. È un approccio simile al cinema live-action, dove il regista può esplorare il set con un mirino. Preferisco le sequenze lunghe: mi permettono di avvicinarmi meglio ai personaggi e restituire il contesto. Un’esperienza immersiva: ti senti dentro la storia e l’ambiente”.
Chi sono i suoi modelli?
“Nel cinema direi registi come Alfonso Cuarón, Paul Thomas Anderson, Hayao Miyazaki, Martin Scorsese, Akira Kurosawa, Sergio Leone, Steven Spielberg, Alfred Hitchcock e molti altri. Sono un grande fan di Fumito Ueda. E poi devo citare molti compositori: Philip Glass, Gustavo Santaolalla, Trent Reznor e Atticus Ross, Ennio Morricone, Max Richter”.
Cos’è cambiato dopo Away, la sua opera prima?
“Ci ho lavorato per tre anni e i risultati hanno superato le mie aspettative. Il film è stato un grande successo nel circuito dei festival, ho avuto la possibilità di viaggiare in tutto il mondo e incontrare i produttori che mi hanno aiutato a realizzare Flow”.
Cos’è Flow?
“La storia di un gatto che deve affrontare due delle sue più grandi paure: l’acqua e la convivenza. Non ha più una casa, deve stare con animali coi quali non va d’accordo, cerca di fuggire dall’alluvione”.
Perché non ci sono dialoghi?
“Spesso il dialogo tende a monopolizzare la nostra attenzione. Oggi ci sono molti film e soprattutto serie che si possono capire senza guardare lo schermo, basta ascoltarli. Non c’è storytelling visivo. Volevo fare il contrario. È una rinuncia stimolante: non posso usare un dialogo o un monologo per spiegare quello che i personaggi stanno provando. Devo impegnarmi a comunicare queste idee con mezzi meno convenzionali”.
Qual è l’obiettivo?
“Penso che così si possa creare qualcosa di più vicino al cinema puro. Un’esperienza non funzionerebbe a teatro, con la pittura o nella narrativa: perciò penso che sia opportuno vedere Flow nella sala cinematografica. Ma non è un silent movie: la musica e gli effetti sonori sono decisivi, ci fanno capire e sentire quello che i personaggi stanno provando. Abbiamo visto storie simili a questa, ma mai dal punto di vista di un gatto”.
Perché proprio un gatto?
“È un animale molto espressivo e divertente da animare”.
Ci sono collegamenti con Away?
“Flow non è un sequel di Away e penso che non si svolgano nello stesso mondo. Anche lo stile visivo e il linguaggio sono diversi. Ma penso che siano in qualche modo collegati. Probabilmente perché ci sono molti aspetti personali in entrambi. Away è un film molto più piccolo che ho fatto da solo. È una storia su un personaggio che si trova da solo su un’isola e cerca una connessione con gli altri. Che poi è qualcosa di molto simile a come ho lavorato. Il film finisce poco prima che il personaggio principale incontri qualcuno. È un’idea che si ritrova anche in Flow. È la prima volta che faccio un film con un grande team e ho dovuto imparare a lavorare insieme e fidarmi degli altri. Proprio come il gatto”.
Di solito il cinema d’animazione si rivolge soprattutto all’infanzia. Flow punta ad allargare il pubblico.
“Non mi piacciono i film che parlano solo ai bambini o alle famiglie: di solito non rispettano la loro intelligenza, spiegano tutto, sottotesti compresi, senza preservare il mistero. È necessario mostrare loro dei film che richiedono impegno e invitano a una riflessione più profonda. Comunque, se lavori cercando di compiacere tutti o un pubblico specifico, finisci per fare qualcosa di noioso che non piace a nessuno”.