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Gábor Reisz (Credits Lorenzo Carmellini La Biennale di Venezia - Foto ASAC)
Nato a Budapest quarantatré anni fa, Gábor Reisz è il nuovo golden boy del cinema europeo. Dopo il cult VAN Valami furcsa és megmagyarázhatatlan e il pluripremiato Rossz versek, con Explanation fort Everything ha sbancato all’ultima Mostra di Venezia, dove ha vinto il premio Orizzonti. Reisz torna in Italia per presentare il suo terzo lungometraggio al Tertio Millennio Film Fest, selezionato in concorso.
Storia di un esame di maturità che diventa uno scandalo nazionale, è uno spaccato della situazione politica ungherese che sa farsi racconto universale sulla necessità di armonizzare le differenze tra le parti. “L’idea è nata nel 2020 – racconta il regista – quando studenti e insegnanti scesero in piazza contro la riforma dell’istruzione. Le proteste sono durate più di settanta giorni, io stesso mi sono schierato dalla loro parte. Poi, nell’estate di quell’anno, il governo di Viktor Orbán ha varato una riforma che era una vera e propria vendetta, dopo anni di tagli al settore e perfino l’abolizione del ministero dedicato. Oltre all’allungamento dell’anno scolastico, i docenti, che hanno stipendi ridicoli, sono stati sovraccaricati di altro lavoro e sottoposti a severissimi criteri di valutazione del rendimento. Da lì ho avuto l’ispirazione”.
In che modo?
Durante l’esame, il protagonista del film si presenta con una coccarda tricolore appuntata sul bavero. È un simbolo che fa parte della nostra cultura, perché viene indossata per commemorare l’anniversario della Guerra d’Indipendenza del 1848. Il problema è che, negli ultimi vent’anni, i nazionalisti hanno strumentalizzato questo simbolo collettivo per farne qualcosa di fortemente identitario. Quindi chi la esibisce è considerato un sostenitore della nazione e chi non la indossa è invece un traditore. È una frattura profondissima. Da qui parte il film, perché la famiglia conservatrice del protagonista si convince che il giudizio di un insegnante progressista sia dovuto proprio a quella coccarda.
È un film molto calato nella quotidianità ungherese. Sarebbe stato possibile realizzarlo in un altro momento storico?
Non credo. È il risultato di oltre un decennio di potere nazionalista. Orbán usa una comunicazione molto aggressiva, cavalca la polarizzazione, crea nemici invisibili, fa terrorismo psicologico e non favorisce punti di incontro tra le parti. E un certo modo di fare giornalismo, che nel film ha un ruolo fondamentale, è responsabile della manipolazione delle notizie. È sempre più difficile, in Ungheria, avere un’informazione corretta.
Il giornalismo, ma soprattutto la scuola e la famiglia sono i grandi spazi in cui si sviluppa il film.
La scuola è il luogo della formazione dove avvengono i cambiamenti, la famiglia quella in cui si generano le idee. Vengo da una famiglia di destra, la morte di mio padre mi ha influenzato molto nel personaggio del padre del protagonista: non dico che ci sia qualcosa di autobiografico ma è inevitabile mi abbia influenzato nella rappresentazione del confronto generazionale e del conflitto delle idee.
È davvero così determinante la politica nella vita ungherese?
C’è profonda spaccatura. La situazione è ormai implosa, è un problema molto serio perché ci sono due punti di vista che non intendono giungere a un compromesso. Lo scontro vince sempre sull’incontro. Quando due persone escono insieme per la prima volta, i primi cinque minuti sono completamente dedicati alla politica: capire come la pensa l’altro è decisivo per il prosieguo dell’appuntamento.
È un film molto ungherese ma dalla dimensione anche europea.
Non c’era un calcolo iniziale, è stato inconsapevole. È un approccio tipico per me, sin dal primo film: racconto qualcosa di molto particolare e scopro che altrove viene recepito in maniera inaspettata. Sono orgoglioso dell’accoglienza che sta ricevendo all’estero, il premio a Venezia è stato assolutamente sorprendente, lo stesso a Chicago dove abbiamo vinto per il film e la sceneggiatura.
Com’è stato accolto in patria?
Ha incassato circa mezzo milione di euro, è uno dei film ungheresi più visti dell’anno (nonostante il mancato sostegno del Nemzeti Filmintézet, il fondo nazionale dell’audiovisivo ungherese: il film, infatti, è stato parzialmente sostenuto dalla Slovacchia, che lo co-produce, ndr). La cosa che mi fa più piacere è che dopo le proiezioni ci sono dei q&a davvero infervorati e approfonditi: è il segno che abbiamo toccato dei nervi scoperti.
Si sente erede di una tradizione?
Ammetto che non ci sono autori ungheresi che mi hanno influenzato. Ho imparato soprattutto dai miei compagni, non posso non ricordare Éva Schulze che ha scritto il film insieme a me. Se dovessi citare un film ungherese che in qualche modo mi ha suggestionato dico Corpo e anima di Ildikó Enyedi. E tra i riferimenti penso ci sia anche un film come Sieranevada di Cristi Puiu: sono un grande ammiratore del cinema rumeno, non ricordo quasi niente della trama ma c’è qualcosa della forma e dello spirito di quel film.
Ama il cinema italiano?
Chi non lo ama? Penso che dopo la Seconda guerra mondiale ci sia stato un movimento unico al mondo, una stagione in cui sono stati realizzati molti film che hanno preso di petto i conflitti politici e i cambiamenti sociali. Amo Dino Risi e Nanni Moretti. E mi piace citare un film meno noto che ho adorato: Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart.
Il pubblico italiano si può riconoscere in questo film?
La vostra presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è una grande amica di Orbán. Sono due conservatori che hanno un approccio simile nella costruzione del nemico e nella polarizzazione dello scontro. Sono convinto che ci siano alcune sequenze, come quella del confronto aspro tra il padre del protagonista e l’insegnante, che siano emblematici della situazione ungherese ma anche molto, molto universali.