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Damiano e Fabio D'Innocenzo
Dal freddo di Berlino, al caldo di Roma. E l’on the road di Dostoevskij è solo all’inizio. La serie (sei episodi fluviali, bellissimi) aveva avuto la sua première in Germania. L’incontro con i fratelli D’Innocenzo adesso è invece nella nostra capitale, vicino a Piazza Vittorio. Gentili, sorridenti, hanno mille progetti all’orizzonte. Dostoevskij arriverà al cinema dall’11 al 17 luglio. Infine, l’epopea approderà su Sky nell’ultimo trimestre del 2024. Il desiderio: una seconda stagione. Damiano D’Innocenzo è d’accordo: “La farei subito”.
Filippo Timi presta il volto a un poliziotto sull’orlo dell’abisso. Sta inseguendo un serial killer inafferrabile, soprannominato Dostoevskij. Riuscirà a catturarlo? Intanto anche la sua paternità si disgrega. “Volevamo fare qualcosa di libero, puro. A suo modo anche sporco. Abbiamo circumnavigato molte storie, per poi arrivare a Dostoevskij: un racconto seriale, con uno spessore difficile da riassumere in un lungometraggio. Ci ha appassionato avvicinarci al genere, per indagare anche la natura umana. La dedizione alle sfumature del linguaggio ci contraddistingue da sempre, come la possibilità di andare a fondo in quello che più ci tormenta. Questa genesi è stata istintiva, impulsiva, ma mai sbrigativa. Siamo stati veloci, ma con esperienza”, spiega Fabio D’Innocenzo.
Il vostro è un cinema di corpi. Come lavorate sulla rappresentazione?
Damiano: “Il primo interesse che potevamo permetterci, il più elementare, è stato il disegno. Ci concentriamo sulle forme, sui volumi. Da subito è stata una questione di sguardo: le dimensioni, i colori. La fisicità in Dostoevskij era fondamentale. Timi doveva estinguersi, essere l’emblema del disgusto per sé stesso. Ha perso molti chili. Non amo però solo soffermarmi sulla trasformazione del visibile. La magia è nell’aderenza del pensiero. Il corpo fa parte di una natura non programmatica. Siamo anche un po’ morbosi nel decidere che cosa inquadrare”.
Si parla quindi di estetica dell’immagine, strettamente collegata anche all’etica.
Fabio: “Esatto. Favolacce era più plastico, bozzettistico. In Dostoevskij invece ci siamo affidati a un modo di girare più sanguigno, accorato, rinunciando al formalismo, essendo più radicali in alcune scelte: non abbiamo usato carrelli, treppiedi. Volevamo restituire una sensazione di turbolenza interiore. L’inquadratura deve essere rabbiosa, figlia degli strappi. Agisce sottopelle, può essere instabile”.
Dostoevskij sembra girato negli Stati Uniti.
Damiano: “È vero, è qualcosa che arriva dalla nostra immaginazione. Da quando ero bambino, le case le disegnavo come se fossero villette, non palazzi o appartamenti. Sono codici, appresi anche dai libri. Mi fido della mia mente, fa parte dell’inconscio. Ciò che mi affascina è il fuoricampo, ciò che non riusciamo a dire, a rappresentare. Nei primi due nostri film il tessuto visivo era più ricercato, qui invece volevamo privarcene. La storia lo richiedeva”.
Fabio: “La naturalezza richiede uno sforzo maggiore per essere raggiunta, perché tutti tendiamo al bello. È più complesso non far sentire l’artificio, piuttosto che esplicitarlo e farlo esplodere”.
Torniamo quindi al fuoricampo.
Damiano: “Serve un intarsio precisissimo, un’ottima capacità di discernimento, tra quello che si mostra e quello che resta fuori. È minuzioso. Noi facciamo tanto uso degli storyboard, uscirà anche un libro intitolato Indizi che si focalizza su Dostoevskij. Il mio sogno sarebbe fare un film tutto fuoricampo, in cui i protagonisti non si vedono mai”.
Fabio: “Pensandoci, la maggior parte della nostra vita è fuoricampo: aspettative, sogni, immaginari…”.
Qual è il primo film che avete visto insieme?
Fabio: “Avevamo otto anni. Era una videocassetta, l’allegato di un quotidiano. L’abbiamo consumata. Meraviglioso: I ragazzi della 56a strada di Coppola. C’era un concetto di famiglia alternativa, con i fratelli maggiori che si prendevano cura dei minori. Noi abbiamo avuto una famiglia normale, però sento che ad avermi cresciuto è stato Damiano. Poi Coppola inserisce un romanticismo, a volte anche eccessivo, che mi riempie di dolcezza”.
Damiano: “Anni dopo l’abbiamo rivisto in televisione. Ho iniziato a leggere, ad accostarmi alla critica cinematografica. Quel film lo vedevamo una volta al giorno”.
Come vivete la vostra fratellanza?
Damiano: “Condividendo tutto, tranne le fidanzate (ride, ndr). È un’emozione quando Fabio mi fa conoscere un libro, un film, una canzone. Abbiamo una comunione di gusto millimetrica, che poi si riflette sul set. Non sforiamo mai, il confronto porta felicità”.
Che cos’è per voi il cinema e di che cosa ha bisogno oggi?
Fabio: “Significa comunicare senza verbalizzare. Consente di esprimersi senza dover urlare. È rispettoso, democratico. Fa conoscere persone, è un viaggio. Si rinnova, ogni volta è diverso. Il cinema è dinamismo”.
Damiano: “Nel contemporaneo non possiamo permetterci narrazioni generiche, annacquate, stantie, che non prendono posizione. Voglio capire il punto di vista, non mi accontento”.