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Tommaso Santambrogio sul set de Gli oceani sono i veri continenti
L’investitura è di quelle importanti: le Giornate degli Autori hanno scelto lui, un esordiente italiano, per aprire ufficialmente l’edizione numero venti. Non capita spesso. Dobbiamo tornare al 2012 per trovare un precedente: allora era toccato al Pinocchio di Enzo D’Alò.
Tommaso Santambrogio è comprensibilmente euforico: “Si tratta di un’opportunità unica di far vedere quello che abbiamo fatto, di poterlo condividere. Non può esserci gioia più grande per chi fa il nostro mestiere”.
Milanese, classe 1992, viaggiatore, un lungo girovagare “intorno” alla macchina da presa, tra tentativi e lavori di ripiego (è stato anche videogiornalista), l’approdo alla scuola di Werner Herzog, la maturità a quella di Lav Diaz. Una manciata di corti, perlopiù girati all’estero, alcuni molto belli come L’ultimo spegne la luce (cinquina finale ai David di Donatello 2021) e Los Océanos Son Los Verdaderos Continentes, che è anche il titolo del lungometraggio che porterà alle Giornate, una sorta di dilatazione poetico-discorsiva con al centro ancora una volta Cuba, spazio reale ed evocativo di un certo sentimento del tempo, che Santambrogio aveva raccontato anche con il suo precedente lavoro, Taxibol.
Lui lo definisce “un racconto corale” sullo sfondo di un “paese in trasformazione”. Una Cuba decadente, sferzata dalla pioggia e accucciata sulla propria malinconia senile, dove le vicende di una giovane coppia di teatranti sul punto di lasciarsi, Alex e Edith, dell’anziana Milagros, prigioniera dell’assenza del defunto marito , e di due bambini, Frank e Alain, che sublimano nel gioco il desiderio di andare via lontano, formano le tessere di un mosaico che non si ricompone, fantasma della separazione che aleggia su tutta la nazione.
Cuba sembra ossessionarti. E piacerti molto.
Più che Cuba sono le persone che ho incontrato. L’energia che mi trasmette questo luogo e la sua gente è incredibile! Solo fotografandola in b/n, come ho fatto, togliendole la patina del colore, riesci a davvero a entrarci in connessione. Se permetti a Cuba di rivelarsi, lei ti farò uscire dal tuo sistema, dal tuo modo di vivere. Se invece si approccia Cuba con un’ottica occidentale, si va in esaurimento nervoso dopo due settimane, perché nulla funziona come da noi.
Dopo la morte di Castro il paese sembra un po’ uscito dai radar occidentali.
C’era stata l’apertura di Obama, poi con Trump il dialogo si è nuovamente interrotto. Il paese è tenuto per la gola dagli Stati Uniti, che agiscono attraverso la politica degli embarghi. Ma i problemi di Cuba non dipendono solo da fattori esterni.
In che senso?
Il paese è amministrato molto male. La pandemia poi ha tagliato le gambe al paese, azzoppando turismo ed economia del mercato nero. Oggi l’inflazione ha tassi allucinanti, per un periodo mancavano persino beni di prima necessità. E non si intravede all’orizzonte una nuova figura carismatica che possa traghettare i cubani verso il futuro. Eppure è anche un momento storico molto interessante per Cuba: è tutto in fermento, tra crisi migratoria ed economica, Cuba sta vivendo un delicatissimo momento di passaggio, dove il sentimento collettivo oscilla tra rabbia e disperazione, voglia di rimboccarsi le maniche e desiderio di fuga.
La situazione in cui si trovano Alex ed Edith nel film.
Esattamente. Li ho incontrati nel 2019, entrambi hanno fatto parte anche di Taxibol. Il film si è modellato sulle esigenze dei personaggi. Edith è effettivamente emigrata in Italia, Alex ha scelto di restare per cercare di cambiare le cose da dentro. Milagros ha perso il marito successivamente alla guerra di Angola. Tutti hanno sperimentato questa sensazione di perdita, di separazione, che è tipica dell’odierna società cubana. Molta popolazione sta lasciando il paese, serpeggia la convinzione diffusa che l’ideologia castrista non abbia funzionato e che il modello capitalistico abbia contribuito ad affondare ancor di più il paese. Restano le rovine e la grande umanità delle persone, che stanno però vivendo in condizioni estremamente difficili.
Che lavorazione ha avuto Gli oceani sono i veri continenti?
È stato un processo molto lungo. Abbiamo iniziato la pre-produzione nel 2019. Ho fatto tanta ricerca, incontrato moltissima gente. I personaggi sono venuti man mano. Quelli che ho scelto mantengono tutti i loro nomi di battesimo. Anche le storie sono le loro. I bambini ad esempio non hanno mai avuto un copione in mano, improvvisavano. C’è indubbiamente una forte componente documentaristica nel film, anche se la messa in scena e le maestranze sono da lungometraggio di finzione.
Lo hai definito un “processo maieutico”.
Sì. Avevo tantissimo materiale girato e anche se gli elementi cardine della narrazione mi erano chiari, molte cose sono emerse nel farsi stesso del film, cose inattese. Il tempo a disposizione ci ha permesso di ricreare intorno ai personaggi una comfort zone, grazie alla quale hanno tirato fuori più di quanto mi sarei aspettato. Questo progetto mi ha formato tanto: è stato difficile perché devi essere costantemente ricettivo, creativo, dialogare sempre con il momento presente, appoggiandoti però quando serve a quello che avevi scritto prima. Lavorare in questa maniera, lasciando massima libertà, scrivendo e riscrivendo, mi ha permesso di crescere tanto anche a livello di sperimentazione.
Soddisfatto del risultato?
Era quello che volevo ottenere, anzi è andata addirittura meglio. Gli oceani sono i veri continenti è il tipo di cinema che mi piace vedere. Me ne sono reso conto in montaggio. Anche la parte con i burattini, che era la più rischiosa, ha finito per legarsi bene con quella che la precede.
Stai parlando dell’epilogo. Spiegaci da dove nasce questa scelta.
L’input è stato il teatro dei burattini di cui Edith ci aveva parlato. Lei era stata una burattinaia per molto tempo. Lo spunto è partito da un personaggio dunque, poi noi lo abbiamo preparato per sei mesi. Con Edith c’era un maestro burattinaio che ha preparato la tipologia di lavoro che dovevamo fare. E poi sono arrivati i testi di José Martí, una raccolta molto delicata di poesie scritte quando era in esilio a New York. Attraverso lo spettacolo dei burattini proviamo ad universalizzare lo stato delle cose, il bello e il brutto della commedia umana, il mosaico antropologico nel contesto di San Antonio, dove abbiamo girato. Questi burattini mi ricordano le figure dei quadri di de Chirico: materia che sta mantecando nell’anima.
Quanto è presente la lezione di Herzog e Lav Diaz nel tuo lavoro?
Gli devo molto. Quando ho conosciuto Herzog, per un workshop in Amazzonia, era la prima volta che prendevo in mano una telecamera. Avevo iniziato come videogiornalista, lavorato in una casa di produzione a Parigi, ma ho capito che cosa fosse il mestiere del cinema solo allora. Tutti conoscono Herzog come il regista delle sfide impossibili, l’autore di Fitzcarraldo, ma se devo citarti una lezione preziosa che ho imparato da lui è l’attenzione al cashflow produttivo: la gestione del denaro è fondamentale. Ho ritrovato questa parsimonia anche in seguito, lavorando con registi come Avati. È importante. Tarkovskij diceva che il cinema è un’arte infelice perché ha bisogno del denaro.
Con Lav Diaz ho lavorato di più. Dopo una parentesi breve al Centro Sperimentale di Roma, sono riuscito ad entrare in questo progetto di residenza d’artista a Cuba gestita da lui. È un regista che ammiro molto, di cui mi colpisce l’epica del racconto, la capacità straordinaria di cogliere il contesto socio-politico da storie piccole. Sia Herzog che Diaz mi hanno aiutato a divincolarmi da certe regole del cinema mainstream, a non andare nella direzione attesa. Sono persone fuori dai canoni: se devo trovare un tratto distintivo e comune a questi due maestri è la libertà.
Prima abbiamo parlato di separazione. Qual è il tuo grado di separazione rispetto all’Italia?
Bella domanda. Io ho principalmente lavorato all’estero, per via delle possibilità che nel mio paese non avrei trovato e anche per le storie in cui mi sono imbattuto. Il contesto italiano è più elefantiaco, lento. Il nostro cinema però è parte di me, sarebbe assurdo il contrario. Sono cresciuto vedendo i grandi film italiani e apprezzo anche tanti nostri registi contemporanei. Molti peraltro lavorano all’estero. Come Roberto Minervini e Andrea Pallaoro, che ammiro molto. Il suo Medeas è un film che mi porto ancora dentro.
Gli expat del cinema italiano.
Stiamo crescendo di numero. C’è Luca Guadagnino e anche Pietro Marcello ha girato il suo primo film fuori dall’Italia. Ma non ci siamo messi d’accordo.
Girare e viaggiare non sono verbi così distanti. E Mark Twain diceva che “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
Ho avuto la fortuna, fin da bambino, di viaggiare tanto. Questo mi ha concesso un grande privilegio: cercare l’altro e relazionarmi con lingue che non conoscevo. Senza più la maschera di quello che ero abituato a essere. Il viaggio aiuta e stimola perché suscita incomodità, costringendoti a metterti in ascolto con un altrove, a drizzare le antenne e alla fine a riconnetterti con te stesso. È l’antidoto alla regressione ombelicale del mondo.