PHOTO
Alberto Sordi in La grande guerra
Nel 1959 alla Mostra del Cinema di Venezia fu la stagione degli “eroi per caso”. Leone d'Oro ex aequo per Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e per La grande guerra di Mario Monicelli. Nel primo Vittorio De Sica interpretava un volgare truffatore, spedito dalle SS a fare lo spione tra i partigiani nel carcere di San Vittore, sotto le mentite spoglie di un generale badogliano.
Trasformatosi a contatto con il mondo della resistenza, il “generale” De Sica si redime proprio in extremis al punto da andare incontro alla morte pur di non tradire la causa partigiana. Ne La grande guerra Monicelli rompeva il tabù della disfatta di Caporetto e della difesa del Piave provando a raccontare in forma satirica la guerra del ‘15-‘18. Una scelta che costò all'autore roventi polemiche da parte di quanti non pensavano che della I Guerra Mondiale e degli eroici fatti del Piave si potesse ridere o anche solo sorridere. Come nella vicenda del generale Della Rovere, quella dei due soldatini “imboscati” Giovanni Busacca e Oreste Jacovacci il riscatto arrivava nel finale, amaro ed emotivamente densissimo.
Per il resto del film Monicelli, con la scelta di fare dei due protagonisti un milanese (Giovanni – Vittorio Gassman) e un romano (Oreste – Alberto Sordi) rasentava il bozzettismo e ricomponeva una sorta di unità d’Italia all'insegna dell’arte di arrangiarsi e sopravvivere, dando con ciò il suo contributo alla costruzione dell'immagine degli italiani “brava gente” ma combattenti poco valorosi e inaffidabili. Un po’ cialtroni entrambi, ma tronfio e fanfarone Giovanni-Gassman quanto Oreste-Sordi è maldestro e codardo, i nostri “eroi” sono riusciti per quasi rutta la durata del conflitto a farla franca e ad evitare la prima linea.
Quando toccherebbe a loro, la dabbenaggine li rovina: vengono invitati a portare un messaggio e non trovano di meglio che addormentarsi in una stalla. Al mattino dopo intorno a loro non ci sono più gli italiani ma gli austriaci. I suoni minacciosi della lingua straniera risvegliano Oreste. “Sono arrivati gli alpini bergamaschi”, dice a Giovanni con la solita incapacità di far presa sul reale e di comprendere quello che accade intorno a lui. “Sono gli austriaci” lo riporta – drammaticamente – con i piedi per terra Giovanni.
Una volta di più sarà l’ingenuità di Oreste, fino a quel punto del film un elemento esclusivamente comico, a dare il la a un finale tristissimo. Il soldatino romano si lascia sfuggire davanti all’ufficiale nemico che gli italiani stanno preparando un ponte di barche. L’austriaco vuole allora sapere dove. Giovanni e Oreste non hanno scelta: parlare o essere fucilati. Sembrano pronti a parlare, perché la vita, ai loro occhi, vale molto di più di un ponte di barche o dell’esito di una guerra di cui poco o nulla capiscono.
Ma un’allusione del nemico allo scarso coraggio degli italiani (“conoscono solo il fegato alla veneziana”) fa scattare in Giovanni un estremo lampo d’orgoglio. Gassman si fa fucilare quasi per fare dispetto a quel nemico arrogante e insolente, con una smorfia di scherno che non vediamo ma che ci vien facile immaginare. Sordi, rimasto solo, non tradisce il compagno, benché il suo approccio alla morte sia completamente diverso: non ci sono in lui né orgoglio né coraggio, ma una volta di più il tentativo di furia franca, di convincere gli austriaci che dei due il solo Giovanni, ormai morto, conosceva il luogo del ponte di barche.
"Io non so niente, sono solo un vigliacco”, grida Oreste davanti al plotone d’esecuzione, con lo stupore di chi solo in punto di morte pare accorgersi che cosa voglia dire essere un soldato. Vigliacco fino all’ultimo istante, eroe obtorto collo di una guerra che finisce un attimo dopo senza di lui.
Articolo pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di aprile 2003