Occasione per riflettere sulla relazione tra identità e alterità; sul grado di inclusività di una cultura; sui processi di stigmatizzazione e sulle dinamiche di isolamento, il tema della deformità fisica è tra quelli su cui il cinema – almeno da Freaks in poi (1932) - sente una forte propensione perché investe direttamente la questione del vedere, i meccanismi scopici di costruzione dell’identità e i processi di regolazione sociale dello sguardo. A Different Man è solo l’ultimo epigono di un’eccellente tradizione del cinema americano, capace di realizzare pietre miliari come The Elephant Man di David Lynch (1980) e Dietro la maschera di Peter Bogdanovich (1985), punti di riferimento imprescindibili. Il tema della deformità o della mostruosità (Tim Burton docet) è un sottogenere del più ampio tema della diversità e dell’inclusione, tanto caro a Hollywood. Ma adesso, con Trump alla Casa Bianca, le cose potrebbero cambiare.
Da quando il Presidente americano ha emesso nel gennaio scorso un ordine esecutivo con il quale affidava al procuratore generale degli Stati Uniti il compito di contrastare i programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion) del settore privato che, a suo avviso, costituiscono una discriminazione illegale basata su razza e sesso, molte aziende del settore dell’intrattenimento si sono adeguate. Come? Congelando l’impegno per la diversità che all’indomani dell’omicidio di George Floyd aveva invece ricevuto forte impulso sulla scorta dell’indignazione collettiva.

PRIME REAZIONI
L’ingiunzione di Donald Trump ha trovato immediata accoglienza presso la Federal Communications Commission, guidata da Brendan Carr (nominato da The Donald), che come primo atto ha avviato un'indagine su NBCUniversal, Comcast Corp., per "sradicare" tali iniziative. Nel mentre, Paramount Global abbandonava gli obiettivi di genere, razza, etnia e sesso legati al proprio personale; Warner Bros. Discovery rinominava le sue attività DEI semplicemente come "inclusione"; e Walt Disney Co. ha eliminato il parametro di performance "diversità e inclusione", fino a quel momento utilizzato per calcolare la retribuzione dei dirigenti. Sempre la Disney ha continuato a registrare arretramenti nella guerra culturale per l’inclusione e la diversità, rimuovendo ad esempio dalla serie animata Pixar Win or Lose una linea narrativa legata a un’atleta trans.

Donadl Trump, @Gage Skidmore
Donadl Trump, @Gage Skidmore

Donadl Trump, @Gage Skidmore

PARTITA LA RITIRATA
In realtà, i dubbi sulle politiche di inclusione nel mondo dei media erano sorti prima. Nel 2023, alcuni dirigenti di primissimo livello, incaricati dalle aziende di promuovere sforzi per la diversità, si erano dimessi o erano stati licenziati, lasciando presagire che gli obiettivi DEI avessero vita breve. Certo, in pochi immaginavano così breve. Uno studio recente – l’UCLA Hollywood Diversity Report - ha rivelato come i film americani di maggiore incasso del 2024 fossero già una fotografia della revisione delle politiche di inclusione: gli attori di colore hanno rappresentato il 25,2% dei ruoli principali nei film di maggiore successo dello scorso anno, in calo rispetto al 29,2% del 2023. Anche il numero di film diretti da persone di colore è diminuito nel 2024 rispetto al 2023: 20,2% nel 2024 rispetto al 22,9% dell'anno precedente (le persone di colore rappresentano circa il 44% della popolazione statunitense). Dal punto di vista aziendale, il tasso di riduzione dei ruoli DEI nell'industria cinematografica e televisiva ha superato poi il calo generale dell'occupazione (fonte Revelio Labs, che ha raccolto e analizzato i dati di Paramount Pictures, Sony Pictures Entertainment, Walt Disney Studios, Warner Bros. Entertainment, Universal Studios e Amazon Studios).

Ron DeSantis
Ron DeSantis

Ron DeSantis

NON SOLO TRUMP
Se Trump (le cui sortite ormai non risparmiano nemmeno le categorie protette al lavoro nei gangli dell’amministrazione) è la testa di ariete nella guerra contro la cultura woke e le politiche DEI – non bisogna dimenticare che l’attuale inquilino della White House sta facendo causa alla CBS News per "manipolazione ingannevole" dell'intervista di Kamala Harris a 60 Minutes e che sia CBS che Paramount sono sotto indagine della FCC (con l’azionista di controllo della Paramount, Shari Redstone, che spinge per un accordo con la Commissione, al fine di poter avere il sospirato via libera all’operazione di fusione con Skydance Media) – la controffensiva non è solo “merito” suo. Le prime reazioni contro le aziende impegnate nelle politiche della diversità e dell’inclusione risalgono allo scontro tra la Disney e il governatore della Florida Ron DeSantis, partito nel 2022 con le critiche della multinazionale alla legge chiamata informalmente “Don’t say gay” (“non dire gay”), che proibisce tra le altre cose di parlare di orientamento sessuale e di identità di genere nelle scuole, proseguito con la disputa legale sul controllo revocato dal governatore del distretto in cui si trova il parco divertimenti Disney World (disputa terminata con un accordo raggiunto lo scorso anno tra la Disney e la Florida su un nuovo piano di sviluppo co-gestito del Distretto). C’era stato poi due anni fa il boicottaggio della destra americana della birra Bud Light, marchio reo secondo gli ultraconservatori di aver collaborato con l’influencer trans Dylan Mulvaney per una propria pubblicità.

Il castello di Cenerentola a DisneyWorld Orlando
Il castello di Cenerentola a DisneyWorld Orlando

Il castello di Cenerentola a DisneyWorld Orlando

Battaglie ideologiche combattute su uno sfondo economico non certo favorevole alle media company, dissanguate da anni di guerra ai colossi dello streaming che le hanno fortemente ridimensionate. Eppure fino a qualche anno fa diversità e rappresentanza venivano esaltate dai dirigenti di queste aziende come fattori positivi per il business. Mancavano però solide controprove, che gi ultimi studi hanno fornito. D’altra parte, c’è chi addebita alla cattiva applicazione delle politiche DEI – spesso portate avanti in modo inadeguato e superficiale – la causa del loro fallimento. E chi come Karen Horne, ex supervisore delle politiche DEI per Warner Bros. Discovery, sostiene come in realtà molte aziende stiano continuando a promuovere tali azioni senza troppa pubblicità. Peccato, come rimarca il Los Angeles Times, che gli studi pubblicati di recente non siano altrettanto timidi nel rivolgersi alla pancia ultraconservatrice d’America, al momento maggioranza culturale anche in quella Hollywood che una volta impartiva agli altri lezioni sui diritti. Un film di cui l’unico bianco e nero possibile sembrerebbe solo quello del cinema del passato.