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Ke Huy Quan e Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Once è il favorito (Credits: Allyson Riggs)
L’Academy ne è talmente consapevole che ha elaborato un meccanismo elettorale piuttosto articolato, con l’obiettivo di evitare che ci siano vincitori annunciati. I motivi sono intuibili: creare aspettative, alimentare le tifoserie, rafforzare la trasmissione televisiva.
Negli ultimi anni, sull’onda delle polemiche, l’Academy ha allargato la platea di votanti (al momento sono circa 9.665): più donne, rappresentanti delle minoranze, cineasti non anglosassoni. Per decidere le candidature, in larga maggioranza ciascun elettore vota per il proprio settore di appartenenza (l’unica aperta a tutti è quella del miglior film), indicando una “top 5” in cui a ogni designato è associato un punteggio proporzionale alla posizione in classifica. Entra nella cinquina finale chi ottiene un numero minimo di voti necessario o il maggior numero di voti secondo il sistema ponderato (si divide il numero dei votanti con quello delle nomination più uno) e non chi ha raccolto più voti in assoluto.
Per esempio: per la miglior attrice votano in 1.302, quindi basta che 261 elettori collochino una collega al primo posto delle rispettive top 5 (così, grazie a un’astuta campagna nell’élite hollywoodiana, Andrea Riseborough si è guadagnata una nomination per il low budget To Leslie). L’intento è garantire una candidatura a chi piace tanto a pochi e non a chi piace mediamente a tutti. È un sistema che evita il dominio dei “film pigliatutto”: lontani i tempi de Il signore degli anelli – Il ritorno del re (11 premi su 11 nomination nel 2003), mentre curiosamente i primatisti più recenti mancano sempre la statuetta più pesante, conquistando soprattutto premi tecnici (7, miglior regia compresa, per Gravity, 6 per Mad Max: Fury Road e Dune) a meno che non si tratti di fenomeni popolari (6 per La La Land: ricordate il colpo di scena di Moonlight?).
Quest’anno a dominare è Everything Everywhere All at Once con 11 nomination. Un film costato circa 20 milioni di dollari, che nel mondo ne ha incassati oltre 100 (massimo incasso di A24, la più rampante casa di produzione e distribuzione indie). E che da noi, nella sua doppia uscita in sala, prima a ottobre e poi a febbraio, non ha varcato la soglia del milione di euro.
È la storia di una donna di mezz’età, immigrata cinese in America, che gestisce una lavanderia a gettoni, ha un rapporto difficile con la figlia adolescente e sta per lasciarsi con il marito. Dopo un controllo fiscale, viene trascinata nel multiverso: dovrà salvare il destino di tutti i mondi.
Originale? Messa così sì, ma il pastiche dei The Daniels (compagni di università, autori di videoclip, un’opera prima, Swiss Army Man, di culto) mette insieme una marea di suggestioni: il wuxia con la presenza della sua eroina Michelle Yeoh (che potrebbe diventare la prima attrice asiatica a vincere l’Oscar come miglior protagonista), la commedia degli anni Ottanta grazie a Jamie Lee Curtis, l’avventura attraverso la clamorosa rentrée di Ke Huy Quan (attore bambino per Spielberg, ritiratosi vent’anni fa), il mélo di Wong Kar-wai, la sci-fi da 2001: Odissea nello spazio a Matrix, il cine-comic legittimato agli occhi di un pubblico non nerd (“il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco”, a meno che uno non conosca il Marvel Cinematic Universe). E poi ci sono temi sociali, in primis il racconto del processo di integrazione degli immigrati cinesi nell’immaginario americano, ma anche parabole LGBTQ+.
Gli unici che possono fronteggiarlo sono altri titoli sintonizzati sul clima socio-politico-culturale, locale e globale: la cancel-culture nel fluviale Tár, l’allegoria del conflitto in Gli spiriti dell’isola (e di convesso l’antibellicismo muscolare di Niente di nuovo sul fronte occidentale), la lotta di classe in Triangle of Sadness. Ma difficile, in questa tornata, trovare un film così forte e furbo come quello dei Daniels. Lo scopriremo nella notte tra il 12 e il 13 marzo.