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Francesca Comencini sul set del film - Foto Francesca Lucidi
"Il film si basa su ricordi con i quali ho vissuto tutta la vita. Come in un teatro sempre aperto nella mia testa, con questo cono di luce che si andava a poggiare su momenti reali ma anche sognati, proprio come procede abitualmente la memoria".
Francesca Comencini presenta Il tempo che ci vuole, oggi Fuori Concorso a Venezia 81 e dal 26 settembre nelle sale con 01 distribution.
Interpretato da Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, il film è una produzione Kavac Film con Rai Cinema, Les Films du Worso, IBC Movie e One Art, prodotto da Simone Gattoni, Marco Bellocchio, Beppe Caschetto, Bruno Benetti, con il sostegno del Mic e con il contributo della Lazio Film Commission.
Un padre e una figlia. Il cinema e la vita. L’infanzia che sembra perfetta e poi diventare grandi sbagliando tutto. Cadere e rialzarsi, ricominciare, invecchiare, diventare fragili, lasciarsi andare ma non perdersi mai. Il tempo che ci vuole per salvarsi: Il tempo che ci vuole racconta il rapporto tra la regista, Francesca Comencini, e suo padre, il grande regista Luigi.
"Il primo a cui ho chiesto di leggere il trattamento è stato Marco Bellocchio (che lo produce con Kavac Film, ndr), che mi ha confortata dicendo che anche secondo lui questo era questo il modo giusto di restituire la storia. C'era il desiderio di condividere i ricordi, la memoria di questo rapporto, certo, e sì, sicuramente è un omaggio a mio padre. Perché grazie al cinema, all’arte, si può ridurre quel confine tra chi rimane e chi non c’è più. Ma quello che volevo era estendere il discorso sulla relazione universale padre-figlia, un rapporto fondante per qualunque bambina, poi donna", spiega ancora Comencini, che ammette: "Sicuramente ho disubbidito a mio padre (nel film c'è un momento in cui l'uomo dice di non aver mai parlato di se stesso nei suoi film, ndr), ma era l'unico modo che avevo per rendergli omaggio. Un omaggio attraverso il quale lo ricordo e lo ringrazio".
Nel film la figura del padre è interpretata da Fabrizio Gifuni: "La capacità di Francesca è stata quella di trasmetterci subito quanto questa storia personale dovesse essere universale, in questo modo ha liberato sia me che Romana dai fantasmi. Nel mio caso quello di Comencini, nel suo quello di un personaggio che aleggiava anche al di qua della macchina da presa", dice l'attore, nella vita padre di due figlie, e proprio sull'essere genitore aggiunge: "C'è un tempo in cui è necessario cercare di trasmettere una sorta di autorevolezza con il corpo più che con le parole, poi, più avanti, arriva un momento in cui ci si può mostrare fragili di fronte ai propri figli. È, appunto, il tempo che ci vuole affinché questo processo possa compiersi".
La figlia nel film è Romana Maggiora Vergano (Premio Pasinetti di quest'anno alla Mostra), già coprotagonista nel recente successo C'è ancora domani di Paola Cortellesi: "Ho incontrato una regista che non cercava in me se stessa ma qualcosa che in me le risuonasse. Già leggendo la sceneggiatura, poi, dove i due personaggi sono denominati 'padre' e 'figlia', ho potuto pian piano smarcarmi dal peso di doverla impersonare: è stato un onore e un privilegio far parte di questo film, che umanamente mi ha dato modo di capire una volta di più quanto il fallimento possa essere invece motivo di crescita. Nel momento in cui la figlia dice al padre di essere una fallita, il padre si abbassa sul pavimento e si confida con lei, parlando del suo senso di fallimento. Intorno a me vedo sempre più coetanei, ventenni, soffrire sempre di più per questo senso di inadeguatezza rispetto ai canoni di successo imposti dalla società. Spero che la mia generazione possa vedere questo film, magari insieme al papà o alla mamma".
Proprio sul tema del fallimento tornano anche Francesca Comencini e Fabrizio Gifuni: "Viviamo in un periodo in cui ai giovani vengono imposti modelli di successo, di perfezione. Destreggiarsi con il senso del fallimento è fondamentale, è l'unico modo per andare avanti", dice la regista. Mentre l'attore ricorda di aver chiesto alla Comencini di poter inserire nel film la frase di Samuel Beckett, "fallire sempre, fallire meglio", perché "prima si introietta questo pensiero prima ci si libera da moltissime cose. Noi sbagliamo continuamente e quello che racconta in quel momento del film il padre è quanto quel senso di fallimento continua a viverlo sempre. Viviamo in un'epoca e in una parte del mondo, dominata dalla civiltà occidentale, che ha costruito la cultura dell'essere performativi. Il termine loser è entrato nel linguaggio comune dei giovani, ed è una cosa tragica: l'immaginazione, la fantasia, possono curare le ferite e trasformarle in bellezza".
Infine, nel film si affronta anche il periodo della dipendenza da eroina: "Quello fu un trauma collettivo per tutta la mia generazione - racconta ancora Comencini -, vivevamo in un clima e un'atmosfera molto pesanti, molto forti, a livello politico e sociale, con una costante sensazione di morte, di fine di ogni speranza. E molti, tra i quali anche io, siamo incappati nell'inferno della droga. Ma ritengo sia una forma di dipendenza che non va stigmatizzata, è una cosa molto pesante da cui però si può uscire. Ci vuole molto tempo, mi pareva importante aver elaborato tutto questo".