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Troppo azzurro
Che ne sarebbe stato del timido Roberto se, la mattina di ferragosto del 1962, non si fosse imbattuto in Bruno Cortona? Sarebbe rimasto a casa a preparare gli esami: lo studio come trincea emotiva, il confinamento domestico per non sporcarsi le mani, la timidezza e la ritrosia di un piccolo borghese contro l’incoscienza e l’allegria di un cialtrone che sotto la voglia e la pazzia nasconde un’implacabile solitudine. In fondo è già tutto qui: nell’estate romana tutto è possibile, la città è deserta, il sole si schianta sulle piazze vuote, l’eco dei passi rimbomba nel nulla. Il sorpasso inizia così, con la Lancia Aurelia B24 che attraversa una Roma assolata e spettrale: è l’Italia del boom economico, della scoperta del tempo libero, dell’ideologia della villeggiatura.
Più di sessant’anni dopo – e a più di settanta da Sotto il sole di Roma, dove il coming of age incrocia la guerra nell’estate della città aperta, e da Domenica d’agosto, in cui c’è chi resta in città a coltivare la speranza del dopoguerra – è cambiato tutto: il miracolo del benessere è ridotto a mitologia nostalgica, la capitale si è espansa e moltiplicata e ad agosto non è poi così deserta, il traffico lascia spazio a un silenzio inaudito squarciato dal pigro rombo di qualche auto. Dell’estate romana non è cambiato il segreto: è in quei giorni, quando la città si fa improvvisamente più accessibile e i superstiti si riconoscono con uno sguardo, che si può immaginare una vita nuova.
Lo sa Dario, il protagonista di Troppo azzurro di e con Filippo Barbagallo (dal 9 maggio al cinema), venticinque anni che sono pochi per promettersi il futuro e un mese per costruire un’invenzione di noi due. I commentatori pigri – e bisognosi di etichette – pensano subito a Nanni Moretti (c’entrerà il fatto che Filippo sia figlio di Angelo, suo storico sodale e produttore?): non tanto perché, nell’agosto dei suoi magnifici quarant’anni, gironzolava in Vespa tra i quartieri vuoti per riappropriarsi della memoria e sondare il presente della sua città (Caro diario, ovviamente), ma perché è a lui che si pensa d’istinto quando c’è un attore-autore alle prese con nevrosi giovanili e inciampi emotivi. E magari sarà pure per quel titolo che abbraccia la tradizione popolare, il pomeriggio così lungo in cui ci si accorge di non avere più risorse senza l’amore e il treno dei desideri all’incontrario va.
Ma il Dario di Troppo azzurro guarda alla finestra il Ruggero di Un sacco bello (dove Carlo Verdone, il gemello diverso di Moretti, si fa uno e trino): che sarebbe stato di lui se fosse partito (leggi: scappato) con un amico di amici, un altro Bruno a salvarlo dalla noia e da quel lancinante finale dall’alto? Tutto è possibile, nell’estate romana, fortunato format oggi leggendario che, proprio negli anni dei giovani Moretti e Verdone, rivoluzionò le serate di chi restava a Roma in quel periodo, riscoprendo gli spazi pubblici della metropoli in espansione, rispondendo ai nuovi bisogni di convivialità (siamo negli anni di piombo), rompendo il diaframma dei ghetti urbani e aprendo il centro storico della città alle periferie. Una politica culturale che, oggi, è normalizzata da proposte anodine e risucchiata dal turismo di massa.
Ma, fuori dalle pratiche della socialità, resiste ancora quell’idea di estate romana che vediamo in un film dimenticato e straordinario come Il giorno dell’Assunta di Nino Russo, dove due intellettuali meridionali si aggirano per le strade di Roma, discutono, perdono tempo, vagheggiano il ritorno a casa ma alla fine restano intrappolati nella capitale (Dario, invece, ce la fa a lasciare Roma, a consumare l’estate altrove).
Resiste, qua e là, tra outsider che continuano ad aggiornare un’antologia del sentimento romano estivo: L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria che cammina senza meta, emarginato e tossico mentre il sole è a picco; Rossella Or, attrice d’avanguardia degli anni Settanta che torna da spatriata nella città-cantiere che si prepara al Giubileo del 2000 (Estate romana di Matteo Garrone); Diane Fleri, accidiosa Nina in pieno spaesamento metafisico per Elisa Fuksas.
Fino a Gianni Di Gregorio, nume tutelare di Barbagallo (è supervisore artistico di Troppo azzzurro), che con il suo amico “vichingo” scorrazzano per le strade vuote alla ricerca del cibo necessario per imbandire la tavolata del Pranzo di ferragosto. A testimoniare l’intelligenza di Barbagallo, ciò che rende Troppo azzurro un pezzo necessario di questo discorso è il posizionamento generazionale: in un cinema che tende a dimenticare i “giovani” come personaggi attivi, fa da controcanto umanista al Pietro Castellitto di Enea, non ha la presunzione di parlare per tutti ma dà voce a un orizzonte di occasioni mancate e desiderio di futuro senza cedere al pessimismo o al passatismo. E che questo accada dentro l’estate romana, quando tutto è possibile anche se non c’è un Bruno a sballottarti, è affascinante.