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Alberto Sordi
Cosa rimarrà di Alberto Sordi negli anni Ottanta e Novanta quando la sua unica concessione al postmoderno dilagante – lui invece così classico nella costruzione del personaggio e nella narrazione delle storie – è una forma di autocitazionismo (Storia di un italiano)?
Come la pallina da baseball del romanzo Underworld di Don De LiIlo che attraversa l'America, e la sua storia più recente, fino ad assurgere a icona di una cultura in movimento, il volto di Sordi attraversa i decenni della Storia italiana e racchiude nella sua maschera – sempre uguale sempre diversa: l’identificazione totale nel personaggio che nulla toglie alla piena riconoscibilità dell’attore – tutte le contraddizioni dell’uomo italiano e, prim’ancora, romano, come erede e testimone di una grandezza inscritta nella Storia, a fronte di una debolezza circostante sempre più evidente.
Il Sordi moderno: meschino, furbo, pavido, arrivista, i difetti di una nazione portati all’estrema conseguenza, fino ad assumere un valore esemplare e, in definitiva, epico, per poi lasciare spazio a un imprevisto atto di generosità, di coraggio, o addirittura di bontà, che non nega i precedenti caratteri, ma li assorbe in una visione d’insieme, in cui debolezze e innata grandezza si specchiano. Sul medesimo volto, capace – e di qui l’affermarsi di una maschera immortale, quanto più legata al reale tanto più indimenticabile – di appropriarsi di ogni sfumatura della realtà e di ritrarla, come un pittore che dipinge en plein air quadri grotteschi.
La capacità di cogliere il mostruoso che si cela nel quotidiano e di mostrarlo, spogliato di ogni mostruosità, nella sua più manifesta quotidianità. Forse è qui che si nasconde il Sordi postmoderno, in grado cioè di trascendere, e ridefinire, il suo tempo, il Sordi che interpreta, e accomuna, i personaggi più disparati, di ogni asse sociale, di ogni epoca, di ogni realtà, che afferma e nega se stesso, potendo indistintamente vestire i panni della vittima e del carnefice e, così facendo, riduce e riconduce il bene e il male al proprio volto, punto terminale di ogni esperienza e punto inziale di ogni emozione.
Essere Alberto Sordi, verrebbe da dire parafrasando il film di Spike Jonze ispirato e interpretato da John Malkovich: racchiudere tutto – la grande guerra, la resistenza, l’8 settembre, gli americani, il referendum monarchia o repubblica, il miracolo economico, il sesso, il comune senso del pudore, il divorzio, la contestazione, la violenza, il terrorismo – in un volto. E attraverso quel volto ripercorrere – rivedere – tutto: la storia non di un italiano, ma di un paese. Fino agli anni Ottanta o, per meglio dire, al 1977 di Un borghese piccolo piccolo, al Sordi che si sporca le mani, assorbe la violenza di un’epoca, di una generazione, e la fa propria, fino a essere sopraffatto e cedere, per la prima volta, alla realtà. Non più maschera ma uomo, padre vinto dal dolore per la morte del figlio e poi vendicativo.
Negli anni Ottanta e Novanta l’attore e sempre più regista s’interroga sulla crisi della coppia, sulla gelosia e il tradimento (Io e Caterina, Io so che tu sai che io so), oppure, fedele al suo motto “ridendo castigat mores”, mette alla berlina il protagonismo della giustizia (Tutti dentro), le truffe e le corruzioni legate a certi personaggi che gravitano attorno al mondo della televisione (Sono un fenomeno paranormale, Assolto per aver commesso il fatto), per sposare poi la causa della terza età e raccontarne la solitudine e il bisogno di nuovi interessi, di nuove, inattese, passioni (Nestore – L’ultima corsa, Incontri proibiti).
Sordi insegue nella vita caratteri e temi sempre più esemplari e rappresentativi, eppure essi risultano sempre più marginali, come se non riuscisse più a catturare, a penetrare, il tempo in cui vive. Come, invece, in quegli stessi anni fa Blob, che metabolizza immagini, storie, volti, rendendoli quotidiani, innocui pur nella loro mostruosità, tanto da proporsi come alternativa al classico telegiornale dell’ora di cena egualmente metabolizzante. La televisione ogni giorno celebra un processo a se stessa: la realtà viene filtrata dallo schermo, che rinvia unicamente a sé smarrendo così ogni riferimento alla realtà.
È il trionfo del postmoderno, dell’autoreferenzialità fin
e a se stessa: un flusso incessante di immagini che prelude all’affermazione del Nulla. Sordi appare, per la prima volta, “fuori tempo”: eppure non è l’affacciarsi di un sentimento nostalgico, che Sordi nelle sue prove più riuscite dell’ultimo ventennio – il Sordi che architetta l’omicidio della moglie nel Romanzo di un giovane povero di Scola – riesce a dominare, né il rifiuto di una società sempre più tecnologica. Sordi aveva la capacità non solo di catturare, ma di aderire al tempo, di vestirsi dei suoi stessi panni, fino a mimetizzarsi nella quotidianità –, quanto la presenza, attorno, di una realtà che non è più reale, che non è capitale. Ridotta a puro simulacro, dinanzi alla quale tutti, non solo Sordi, siamo costrettiArticolo pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di aprile 2003.