PHOTO
Guillaume Canet e Alba Rohrwacher in Le occasioni dell'amore
Mathieu ha preso una decisione importante di cui sembra essersi già pentito. Popolare attore di cinema, attraversa un gran coup de blues e ha voltato le spalle alla pièce teatrale che avrebbe potuto offrirgli una nuova credibilità. Ha rinunciato per paura? Per un senso di impostura? Per stanchezza? Non lo sappiamo e non lo sa nemmeno lui, mentre ripara in Bretagna e in un centro di talassoterapia a forma di transatlantico, per ridurre lo scarto tra quello che la gente immagina di lui e la sua vita reale. Tutto quello che può fare al momento è sorridere e ripetere che va tutto bene.
Ma Mathieu non sta bene. Trascina la sua depressione in giro per la spa, affondando l’angoscia nella vasca idromassaggio, deambulando tra bagni di vapore, accettando gentilmente di scattare selfie con fan occasionali, giocando compulsivamente coi telecomandi della sua suite.
Un giorno, trova una lettera alla reception. È di Alice, la donna italiana che ha amato quindici anni prima e poi ha lasciato andare. Lei vive a Quiberon (col marito e la figlia) e vorrebbe tanto ri-vederlo. Lui accetta.
Le occasioni dell’amore debutta e chiude con una ripresa a plongée, un taxi arriva e poi riparte. In mezzo, una parentesi di vita fuori stagione, dolce, a volte burlesca, soprattutto malinconica.
Ci sono almeno due film in Le occasioni dell’amore, il primo ha il sapore di un documentario, un attore abbandonato al suo destino nei corridoi di un sinistro cinque stelle, il secondo ha la consistenza di un melodramma che non può accadere perché tutto appartiene al passato. Si comincia con la commedia stravagante, il racconto al singolare di una vedette in piena crisi esistenziale, sopraffatta da una macchina del caffè recalcitrante, da copioni insipidi, da trattamenti termali insensati e dalle sue lacrime copiose.
Il centro benessere è un mondo senza affetti che riecheggia la sua vita ben regolata, meccanica, incentrata sull’efficienza, anche un po’ vanesia. Guillaume Canet è l’eroe di un primo film nel film che poi deraglia sulla spiaggia e si trasforma in una struggente storia d’amore tra due anime che non hanno mai rielaborato il lutto. Alice e Mathieu si riconoscono al primo sguardo. Quindici anni dopo nulla è cambiato.
Gli ex amanti si sono rifatti una vita, pretendono di essere maturati, di essere capaci di diventare amici, ma i loro corpi non li ascoltano. Sono fatti per abbracciarsi, le loro mani per afferrarsi. La fiamma divampa e riavvia la storia in modo indicibile, con la nobiltà del silenzio. All’improvviso inizia un altro tipo di fiction, un appuntamento transitorio e discretamente febbrile di una coppia, travolta suo malgrado in una risacca del tempo. Il paesaggio cambia, il “paese” di Alice, meno scintillante e meno produttivo, è pieno di sorprese e convive con gli elementi: l’oceano impetuoso, il cielo basso, le strade deserte, le persiane chiuse delle case vuote d’inverno.
Da qualche parte tra Claude Sautet e Jacques Tati, le emozioni sepolte, a turno meravigliate, disperate, fataliste, “cadono a mucchi” come nella poesia dei vecchi amanti di Jacques Prévert. Affondato nel grigiore di una cittadina in letargo, il loro fantasma d’amore non è così diverso da quello che il cinema ha saputo evocare, non più originale degli eterni rimpianti di Yves Montand (Les feuilles mortes) ma dominato dalla grazia modesta di Alba Rohrwacher, che cuce ricordi e rimpianti nella luce mutevole di una costa spazzata dal vento. In un film che respira iodio e poi dice l’amore, la disillusione, le scelte di vita sullo sfondo di una società in cui non è facile tracciare la propria strada senza cedere ai compromessi.
Stéphane Brizé, prima della sua esplorazione del mondo del lavoro, ha cominciato parlando d’amore. È Mademoiselle Chambon, trasposizione del romanzo di Éric Holder, con Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon, a rivelare la sua sensibilità e quel minimalismo formale che esalta la complessità dei suoi personaggi e dei legami che li uniscono. Niente dialoghi, quasi nessuno movimento e tutto è detto. La complicità evidente con Lindon lo condurrà poi altrove, verso un cinema sociale, impegnato (La legge del mercato, In guerra, Un altro mondo) e altrettanto riuscito. Ma è con gioia, quella che ci procura, che l’amore ritorna nella sua filmografia.
Stéphane Brizé, rinnova le origini del suo cinema (Le Bleu de ville, Je ne suis pas là pour être aimé…) con un gesto di romanticismo puro, vissuto tutto sulla pelle e nella testa dei suoi protagonisti. Ricomincia dall’amore, dal caos, dal caso, dall’incrocio tra passato e presente per scongiurare un futuro incerto.
Sulla linea di Mademoiselle Chambon, l’autore esplora le insoddisfazioni dell’amore attraverso una coppia inaspettata, Guillaume Canet e Alba Rohrwacher. Come Bill Murray nel suo hotel giapponese (Lost in Translation), l’attore di Canet è perso dentro un mondo ostile, è solo dentro il vuoto immacolato di una stazione balneare. Immerso in un universo asettico interrotto solo dalla voce della moglie (Marie Drucker), star televisiva che sembra fargli un favore quando gli concede due minuti al telefono. Lui cerca di spiegarle la sua infelicità e la sua rinuncia, lei si limita a ripetere che il caso è chiuso e passa oltre. Come se nella vita fosse tutto una questione di giusto o sbagliato, di redditività, come se fosse di fronte a uno dei suoi ospiti televisivi.
Non è la prima volta che l’attore interpreta il suo doppio malinconico in preda a dubbi esistenziali (e professionali), che prova a essere all’altezza dell’immagine di successo che gli altri hanno di lui. Era già capitato con Rock’n Roll e Lui, entrambi diretti dall’attore, ma mai Canet era apparso così luminoso, così nudo davanti alla macchina da presa di un regista.
E davanti a lui, Alba Rohrwacher è senza pelle, così giusta, così precisa, così infiammabile in quella passione sopita che riaffiora loro malgrado, lasciando che i loro silenzi, gli sguardi, la pelle arrossata dall’amore, dicano più delle parole. Le note ossessive di Vincent Delerm, vettore erotico di una relazione che risorge, battono su quella loro chimica stupefacente in bilico come la vita tra sorrisi e lacrime.
Il soggetto del film non è il ricongiungimento di una donna e di un uomo che si sono amati tanto tempo prima ma la lenta conclusione di una relazione interrotta bruscamente. Brizé aiuta chi è sopravvissuto, chi ha fallito, a raggiungere un po’ di serenità e ad accomodarcisi per sempre. Il film è costellato di scene comiche, di incontri buffi tra due mondi, dall’insegnante di “sport mistico” agli chanteurs d’oiseaux (Johnny Rasse e Jean Boucault) che creano una complicità silenziosa tra i due amanti.
Ma anche nelle sequenze più liete, la malinconia si insinua, splendidamente, teneramente. L’autore sa anche spiazzarci, con rotture di tono, come il lungo racconto di una sposa in un video inviato da Alice a Mathieu, che ci commuove, insieme a lui. I personaggi dei suoi film d’amore sono tutti indimenticabili, perché “esistono” anche dopo i titoli di coda. Si tengono stretti l’uno all’altro anche se sanno che non servirà a nulla. Vogliono crederci lo stesso. E l’umorismo, come la malinconia derivano dalla disposizione dei loro corpi nello spazio, spiagge, corridoi, camere, ristoranti, dove gli ex amanti restano ex amanti, dove le parole scambiate producono il miracolo di sublimare il passato.
Infelici in due mondi separati covano il dubbio: hanno fatto le scelte giuste? Che ne sarà del loro amore? Non ha importanza perché il senso della storia è mettere la parola “fine” e prendere quello di cui hanno bisogno per andare avanti con la propria vita. Tra dramma sentimentale e potenza emozionale, ci trascinano in questa parentesi come a dirci che c’è sempre un ‘fuori stagione’ per riparare il passato e ripartire, un po’ meno feriti, verso il futuro. Ci ripetono che si può cadere, che la vita non è sempre una stagione assolata ma il sole può splendere nei momenti più inaspettati, anche quando fuori è inverno profondo.